C’è dentro tutto il mondo fantastico e romantico di questo piccolo italo-americano: Phil Spector, il soul degli anni 60 e 70, il rock’n’roll, i Byrds, l’R&B. E naturalmente tanto Springsteen, il che fa legittimamente pensare che l’uscita dalla E Street Band agli inizi degli anni 80 non sia stata una cosa indolore, un po’ come quella di Mick Taylor dagli Stones che non si vedeva accreditato il gran lavoro che faceva per i pezzi che venivano firmati dai soli Jagger e Richards. D’altro canto in una recente intervista lo ha detto chiaramente lui stesso: “Se però penso che proprio negli anni in cui a Soweto io rischiavo la vita o la galera insieme a un gruppo di rivoluzionari, tutti i miei compagni della E Street Band diventavano ricchi sfondati con la musica che avevo scritto io, allora ecco che riaffiora lo “stupido”. Non è che ovviamente Springsteen si fosse appropriato di canzoni scritte dall’amico Van Zandt, ma il suo contributo era evidente e lo si capisce ascoltando questo disco, dove diversi brani hanno molto di springsteeniano. E’ il ritorno, brillante ed entusiasmante, di quel Jersey Shore sound che i due amici a inizio anni 70 si inventarono, fatto di riferimenti grondanti soul e R&B e chitarre rock.
Questo disco fa soprattutto fa capire quanto sangue scorre ancora nelle vene musicali di Little Steven, dopo averlo visto negli ultimi anni sbadigliare sul palco della E Street Band, preso a calci nel sedere da Springsteen per fargli tirare fuori un assolo di chitarra. Certo, ci ha messo quasi vent’anni per farlo, dopo l’inutile e pomposo “Born Savage” del 1999 anche se, dicono le cronache, è nato tutto in modo veloce dopo che lui e i suoi Disciples of Soul furono invitati a esibirsi a un festival a Londra lo scorso anno.
“Un gruppo di disadattati, ladri e portuali” definisce lui la sua band, e ce ne fossero di disadattati del rock’n’roll come questi. Se noi over 50 possiamo ancora concederci il lusso di fare un rock party, questo è il disco da suonare.
“Soul horns-meet-rock‘n roll guitars” ed ecco una serie di brani trascinanti e irresistibili dall’inizio alla fine, in cui Van Zandt canta anche molto bene e – udite udite – strappa alcuni laceranti assolo di chitarra.
C’è anche il primissimo brano mai scritto da lui, ancora negli anni 60, e dato in prestito ad amici, I Don’t Want to Go Home, più gospel che soul di quanto suonava in altre incisioni.
Ma dall’iniziale tiratissimo funk di Soulfire, con un crescendo fiatistico irresistibile, chitarre sparate con potenza, coro femminile affiatatissimo, siamo davanti a quello che negli anni 70 sarebbe stato un hit sicuro.
Blues in My Business parte con un solo acidissimo e schizofrenico di chitarra, un R&B dall’impatto esaltante mentre I Saw The Light è un rockettone con Springsteen e Bob Seger nelle corde. Di Some Things Don’t Change Otis Redding avrebbe potuto fare una splendida versione, con quell’andamento soul notturno e romantico che la contraddistingue.
L’altro grande amore di Little Steve, i Byrds e tutti i gruppi americani garage degli anni 60 viene fuori nella splendida Love on the Wrong of Sound, arricchita di un wall of sound spectoriano con fiati, archi, voci femminili. Magari l’avrebbero potuta incidere le Ronettes.
Ancora Phil Spector nella ballatona anni 50 The City Weeps Tonight. con la presenza vocale dei Persuasions, leggendario gruppo soul degli anni 60 mentre uno dei brani più riusciti e è la lunga Down and Out in New York City, puro Philly Sound percussivo con chitarre wah wah, un tuffo nella Grande Mela più black degli anni 70.
E se Standing in the Rain con quell chitarre da spaghetti western è un po’ una sbruffonata alla Ennio Morricone, Saint Valentine’s Day riporta al primo Springsteen e alle notti sulla costa del New Jersey, inseguendo sogni folli e ragazze impossibili.
Il disco si chiude con la tiratissima Ride the Night Away, un brano che è più che una promessa: “I’m back into it,” dice Little Steven. “And this time I’m going to stay back”. Lo speriamo caldamente. Qua dentro c’è tutta l’America migliore, quella di un sogno che troppo a lungo è stato spazzato via dal tempo che ci è cascato sulle spalle, dalle sconfitte della vita, dalle delusioni e dalle promesse mancate. E se anche possiamo tornare giovani per la sola durata di un disco, be’, sarà sempre meglio che ascoltare un discorso di Trump alla televisione. Questa è America, questo è l’American Graffitti dei nostri anni Duemila.
Il disco esce il 19 maggio; Little Steven sarà in Italia per una sola data il prossimo 4 luglio a Pistoia, con una band di 15 elementi. Sarà una grande festa.