Non conoscevo così bene Marco Zanzi, insegnante di Varese che faceva anche il musicista. O almeno non lo conoscevo così bene da poter raccontare aneddoti personali o cose intime sulla sua vita. Lo conoscevo, però, abbastanza bene da rimanere colpito dalla sua storia e dalla quantità di messaggi, articoli e foto che sono usciti dopo la sua morte, con unico “fil rouge” l’affetto sincero delle persone che lo avevano incontrato. Era un ottimo musicista ed eccellente suonatore di banjo e mi sarebbe piaciuto un giorno suonarci assieme dal vivo o in studio. Ma nella vita, a volte, si aspetta troppo e senza motivo, prima di osare e di chiedere.
Ad essere sincero l’avrò incrociato 4 o 5 volte, non di più. Se non ricordo male la prima è stata quando ho avuto il piacere di aprire il concerto della Piedmont Brothers Band al Teatro Fontana di Milano qualche anno fa. La Piedmont Brothers Band è una formazione fondata da Marco e da Ron Martin nonostante la distanza impossibile che voleva gran parte dei musicisti in Italia ed altri, tra cui Ron Martin, in North Carolina.
Probabilmente era una caratteristica di Marco quella di vivere con semplicità imprese impossibili se non surreali, come quella di fare una band tra musicisti che stanno a distanza di 7mila km tra di loro. Certo doveva essere un tratto particolarmente rilevante della sua personalità visto il modo con cui ha vissuto la malattia, diagnosticata nel 2013, che poi lo ha portato alla morte il 6 agosto del 2015. Questa era almeno la percezione che avevi di lui quando ci avevi a che fare: una persona ‘naif’, semplice diremmo, ma con una gran cultura musicale, e non solo, che ben raccontava il significato di quello che faceva, dell’origine di ogni singola canzone, di quell’arrangiamento o la storia di quell’amico con cui aveva suonato o con cui aveva scritto una canzone. Si, Marco era naif, come solo le persone più adulte sanno essere.
L’ultima volta l’ho poi reincontrato qualche mese prima della sua morte, in occasione di un “house-concert” che l’amica Rita De Cillis aveva organizzato nella sua abitazione milanese “Perché” – così più o meno diceva quella sera – “devo andare in giro a dare testimonianza di quello che ho riscoperto grazie alla malattia. Perché il tempo è prezioso.”
Aveva voglia di raccontarsi Marco, era come se avesse da raccontare tutto quello che per vari motivi la vita non gli aveva permesso di raccontare o di suonare fino a quel giorno. Come se quel giorno fosse unico e l’ultimo. Oserei dire che era felice. Come se si fosse reso conto, grazie alla malattia, che le cose più importanti erano ancora tutte lì da fare. Diceva che aveva appena fatto 2 dischi e che stava lavorando ad altri 2 e che se non aveva tutti i soldi per fare i nuovi dischi era d’accordo con la moglie che nel caso avrebbero fatto dei sacrifici, che in qualche modo avrebbero trovato una soluzione.
Era sufficientemente lucido per sapere che la morte era diventata la sua compagna di ogni giorno ma questo, invece che affossarlo, lo lanciava nella vita di ogni giorno. Come scriveva proprio ad un amico il 27 dicembre del 2014: “La sofferenza è vita, non morte: è parte del percorso, e parte non indifferente. Non bisogna evitarla, bisogna viverla bene usando la medicina come un aiuto. La vera gioia passa dalla sofferenza, e non è necessario essere cristiani per saperlo e accertarlo. TUTTE le società antiche vivevano la sofferenze e la morte come un evento NATURALE, non come un tabù da evitare, cose di cui non parlare. Sono la porta per l’infinito: e quaggiù bisogna volare e godere di ogni singolo istante del grande dono della vita. Ogni istante passa e non ritornerà, vivilo pienamente e non avrai rimorsi e sarai felice.”
Bisogna volare. “Time To Start Again (Time To Fly Again)” (Trad: “Tempo di ricominciare (tempo di volare ancora)”) è stato il titolo dell’ultimo album di Mock, come lo chiamavano gli amici di sempre. A proposito della bella canzone che da titolo all’album scriveva: “Una canzone autobiografica con un testo piuttosto esplicito… Abbastanza curiosamente è stata scritta prima di sapere della mia malattia.” E nel testo della canzone si legge: “Sono ancora un uomo con molti sogni ma ancora molte difficoltà, a volte mi sento al massimo, ma molte altre volte mi sento così giù! Ma mi piace suonare la mia cara 12 corde e amo mia moglie così tanto. So che ho in me la forza e ho Dio al mio fianco”.
Scriveva ancora, sempre in quella lettera ad un amico durante la malattia: “Affidiamoci al Signore (per chi ci crede), ma anche a chi ci è intorno e ci vuole bene. Scopriremo il segreto della vita piena e lasceremo un po’ da parte il nostro ego, il nostro io e la smetteremo di buttare il tempo lamentandoci e pensando al passato o al futuro. La gioia sta nel presente e nel viverlo al 100%. Peccato che a volte solo con la sofferenza si capisca tutto ciò: l’uomo è strano …. Ringrazio il Signore per quello che mi ha dato, mi dà e mi darà: se questo è il centuplo quaggiù chissà come sarà l’eternità!”
Era un uomo di fede Mock. Ma non in modo ideologico. Non era uno che ostentava la sua fede. Era uno che, più semplicemente, la viveva. Perché a volte si testimonia di più la propria fede vivendo, piuttosto che facendo gesti eclatanti. Credo che la musica fosse per lui il segno più tangibile di una bellezza che è nel cuore di ogni uomo, che credesse o meno in Dio. Forse questo era uno dei segreti di Marco che lo ha portato ad essere circondato da così tante persone che gli volevano bene e motivo per cui sono poi comparsi così tanti articoli di giornale, parole di commozione, foto ed anche un concerto per celebrarne il ricordo.
Diceva, sempre in quella lettera: “Non bloccare i tuoi sogni, sorridi alle persone, stai attento ai loro bisogni, non sei solo a questo mondo, condividi i tuoi talenti, non fermarti al superficiale ma guarda nel cuore degli altri. Non lasciare che il tuo cuore si indurisca. Quando faccio la chemio, mi scorrono davanti agli occhi i volti dei miei amici e fratelli, e la sofferenza diventa più leggera: non sono solo sulla Strada, siamo in tanti a camminare insieme, appunto INSIEME..”
La mente corre subito ad un grandissimo cantautore americano, Warren Zevon, ed alla sua canzone “Don’t let us get sick” (trad: “Non farci ammalare”) scritta appena saputo di essere malato di un male incurabile. La canzone si chiude con il verso “Let Us be together tonight” (Trad: “Facci stare insieme stanotte”) ed è una preghiera laica in cui l’autore non credente intuisce, così come Marco Zanzi dice esplicitamente, che l’amicizia e la condivisione della malattia hanno un che di sacro. L’essere INSIEME non è un caso insomma, ma un dono e segno di una compagnia che per esperienza da senso alla vita. L’unità è una caratteristica dell’essere, direbbero i filosofi.
Mentre scrivo questo articolo continuo a chiedermi cosa mi abbia colpito della storia e, dico con rispetto, della vita di Marco Zanzi benché di fatto non lo conoscessi. Forse mi ha ricordato in modo forte ma delicato che tutti abbiamo un destino da compiere cui non possiamo sfuggire. Questo destino passa attraverso il nostro “talento”, ma l’unico vero talento che rimane di noi è il modo in cui abbiamo dato seguito ai nostri sogni ed a come li abbiamo condivisi con gli altri.
Diceva Tarkovskij:“L’artista non è mai libero, non vi è un’altra categoria di persone che sia meno libera degli artisti. Essi sono incatenati al proprio dono, alla propria predestinazione, che è quella di servire il proprio dono, e con ciò stesso, gli uomini…”.
Ecco cosa mi ha colpito di Marco: che proprio quando era condannato dalla malattia ha capito di essere libero. Che la sua libertà era aderire fino in fondo al suo talento e nessuna malattia avrebbe mai potuto uccidere questa sua libertà. Per questo il tempo era diventato così prezioso per lui. Mi tremano un po’ le mani mentre scrivo sulla tastiera del computer che per lui la malattia e la morte sono state solo un pretesto per essere costretto a riconoscere il destino buono che gli aveva donato la musica, gli amici, la moglie, la famiglia ed il senso della sua stessa vita. Ma, forse, sarebbe un’ingiustizia se non una menzogna non scriverlo. E’ tempo di ricominciare, quindi. Buon 2016.
(Francesco D’Acri)