Narrano le leggende dylaniane (tante, la maggior parte delle quali appunto leggende) che nel 1966 Mogol si fosse presentato a Parigi per incontrare Bob Dylan che nella capitale francese doveva tenere un concerto. Il futuro autore di testi di Lucio Battisti aveva avuto l’incarico di tradurre in italiano la più grande hit del cantautore americano del momento, Like a Rolling Stone. Sempre secondo la leggenda, Dylan dopo aver letto la traduzione, strappò il foglio e rilasciò qualche insulto assortito proibendo che quella traduzione venisse utilizzata. Leggende appunto, anche perché pare difficile che Dylan conoscesse così bene l’italiano o che si fosse fatto fare la traduzione della traduzione con chissà quale risultato e anche perché la traduzione di Mogol venne comunque usata dal gruppo italiano The Wretched che la incisero in quell’anno così come anche dai Juniors, il gruppo che accompagnava Gianni Pettenati. E non era poi neanche così una schifezza…
Per la cronaca, il brano è stato anche tradotto dagli Articolo 31 quarant’anni dopo usando anche un sample del brano originale e finì nella colonna sonora del film di Dylan “Masked and Anonymous”.
Comunque siano andate le cose, la canzone italiana specie negli anni 60, presenta una lunghissima serie di brani stranieri tradotti nella nostra lingua, spesso scadenti o comunque di brani che già nell’originale presentavano testi molto semplici, canzoncine cioè d’amore. Le cose cambiano quando Fabrizio De André mette le mani su Suzanne e Joan of Arc, tutti e due brani di Leonard Cohen, adattandoli in italiano e pubblicandoli su un 45 giri nel 1972. Il risultato è notevole data la cultura letteraria del cantautore genovese e dimostra, se se ne hanno i mezzi, che si può tentare esperimenti del genere.
Più o meno nello stesso periodo in cui De André scopriva il fascino di Cohen, un ragazzo romano si dannava l’anima a cercare di tradurre e capire le canzoni del suo primo (e ultimo) idolo. “Avevo un registratorino e passavo i pomeriggi a mandare avanti e indietro il nastro. Cercavo di capire e impossessarmi di ogni singola parola”. Quel ragazzo si chiamava Francesco De Gregori e passava i suoi pomeriggi cercando di tradurre Desolation Rowdi Bob Dylan. Quella “faticaccia” sarebbe finita nel disco di De André “Canzoni” del 1974 e oggi la ritroviamo su “Amore e furto”, in una versione che musicalmente cerca di riprendere l’approccio live che Dylan le ha dato negli ultimi anni, suonando forse troppo rock e sopra le righe, perdendo in parte il fascino obliquo e oscuro che aveva l’originale. Ma sulla traduzione niente da dire: quella usata da De André è stata ampiamente rivista.
Sempre Francesco De Gregori nei primissimi anni 90 all’allora Palatrussardi apriva il suo concerto con una sorpresa cantando The Boxer di Simon and Garfunkel, in inglese. Tempo dopo ricordandogli quell’episodio, il sottoscritto gli suggerì di incidere un disco di cover di cantautori americani, vista la sua passione per quel tipo di canzone, da Dylan in giù, che lo aveva sempre caratterizzato e in un certo senso influenzato lo stile compositivo: “Non è possibile, la mia pronuncia dell’inglese è scarsa” commentò.
Avrebbe fatto bene oggi De Gregori a incidere un disco di cover, cioè canzoni di Dylan in inglese, o accettare la sfida di tradurre il più grande autore di canzoni del Novecento? Il sottoscritto non ama le “traduzioni da” perché il rischio è sempre quello per comodità vista l’enorme differenza tra inglese e italiano nel significato stesso delle parole di inserire significati altri dall’originale mettendoci dunque del proprio tradendo il contenuto dell’autore. D’altro canto il sottoscritto non ama neanche gli italiani che storpiano e si sforzano di cantare in inglese, il risultato è quasi sempre al limite dell’ascoltabilità.
Che fare allora?
Probabilmente per De Gregori come quando aveva 17 anni, tradurre queste canzoni più che interpretarle è stata una necessità. Chiunque ha provato a tradurre una canzone o una poesia sa che è una possibilità intima e unica per immergersi nel lavoro di chi le ha composte, si finisce quasi per immedesimarsi con l’autore, se ne colgono i respiri, i dubbi e gli affanni di quando le componeva. Per un autore di testi colto e raffinato come è De Gregori, tradurre queste canzoni di un autore che ha sempre amato e che lo ha influenzato grandemente, deve essere stato non solo un divertimento, ma una sorta di immersione umana e spirituale necessaria come l’aria che respira, un modo per comprendere e ricomprendere le fondamenta dello scrivere canzoni, quasi si fosse trovato a conversare con l’autore stesso dei brani di questo disco. D’altro canto le canzoni dicono molto di più di quanto possa dirne l’autore (provate intervistare Dylan o De Gregori e capirete cosa intendo).
In questo modo ha chiuso un cerchio cominciato ai tempi della sua adolescenza, quando faceva andare avanti e indietro quel registratorino.
In “Amore e furto” l’approccio di De Gregori è di assoluta fedeltà al testo originale, nei limiti del possibile ovviamente, con rispetto e senza la minima manipolazione. Nessuno come lui o suo fratello Luigi che di traduzioni ne ha fatte anche lui diverse, sa rendere così bene in italiano canzoni scritte in inglese. Canzoni di Bob Dylan poi, complicate anche per un madrelingua. C’è qualche inevitabile libertà, come nell’ultima divertente strofa di Servire qualcuno (Gotta Serve Somebody): “Puoi chiamarmi Ferdi, puoi chiamarmi Vale, puoi chiamarmi Fede, puoi chiamarmi Ale, puoi chiamarmi Ciccio, puoi chiamarmi Generale, chiamami come credi, chiamami come ti pare”.
La scelta dei brani può sembrare un po’ snob, molti di essi sono poco conosciuti dal grande pubblico, a volte scarti dei dischi dello stesso Dylan (i cui scarti, va sempre detto, potrebbero essere un magnifico repertorio per qualunque altro cantautore), ma in realtà così facendo De Gregori ha coperto ogni decennio della lunghissima carriera di Dylan dandone un ritratto esaustivo e dimostrando quante gemme poco conosciute ai più ci siano in quel repertorio. Alcuni si conoscevano già, perché interpretati dal vivo diverse volte o nel caso di Non dirle che è così perché apparsa nella colonna sonora del film Masked and Anonymous o Una serie di sogni che era stata incisa anni fa da Mimmo Locasciulli.
De Gregori non fa l’imitatore come fanno tutti o quasi quelli che cantano Dylan, non ne ha bisogno. La sua è una voce talmente originale che marchia di suo ogni brano che canta, una voce che invecchiando poi diventa sempre più bella, piena di sfumature e di controllo tonale come pochi. Buon esempio è Tweedle Dum & Tweedle Dee, uno dei pezzi cosiddetti minori di Dylan, che fa completamente suo, con una autorità nella voce che la dice lunga di quanto il cantautore romano si sia calato in questi brani non per farne una imitazione, ma per farli suoi. Impossibile con Dylan? Impossibile per molti, possibile per pochi.
Tutto il disco allora funziona molto bene, anche gli arrangiamenti musicali sono fedeli in linea di massima con gli originali, e la band di De Gregori è una rodata rock blues band che farebbe il suo figurone anche negli States. Appaiono forzati solo gli arrangiamenti della già citata Via della povertà, che si sarebbe potuto rendere in un modo più intimo e delicato dato il mistero che circonda questa canzone, quello di Come il giorno (I Shall Be Released), di cui se ne ricordano migliori versioni dal vivo. Il coro di voci femminili è fastidioso e abbassa la drammaticità del brano mentre le chitarre elettriche riempiono ogni spazio in modo esagerato. Di Dignità(Dignity) chi scrive avrebbe preferito si fosse usato il demo per sola voce e pianoforte invece di quello full band che non brillava neanche nella versione di Dylan. Ma sono tutti peccati veniali.
C’è solo un brano in realtà che non funziona per niente ed è Acido seminterrato (Subterranean Homesick Blues) ma era impossibile vincere la scommessa. E’ uno dei massimi capolavori vocali di Dylan, è l’invenzione del rap, è un rock’n’roll suonato da un Chuck Berry in acido, è un vorticoso fiume di parole in slang hipster anni 60 che De Gregori non riesce a catturare, trasformandolo in un banale boogie blues rallentato e con evidente fatica nel cantato e nelle rime.
Sono invece versioni magistralmente belle Non è buio ancora (Not Dark Yet), Mondo politico (Political world),Un angioletto come te (Sweetheart Like You), Servire qualcuno (Gotta Serve Somebody), la già citata Non dirle che non è così (If You See Her Say Hello) e anche una Serie di sogni (Series of Dreams) fa la sua bella figura. Sarà allora divertente per chi ascolta De Gregori rintracciare sfumature, colori, parole, accordi che sono sparsi qua e là nel suo repertorio e che sono innegabilmente dylaniani. Per dirla in tema, questo disco è un po’ “un riportare tutto a casa”.
Il ragazzino che impazziva a tradurre Desolation Row è oggi un uomo maturo che guarda indietro la sua e la nostra storia e ci dice che niente in fondo è cambiato. C’è sempre tempo e bisogno di una bella canzone di Bob Dylan. Non è mai abbastanza, e fosse solo per questo allora vale la pena ringraziare Francesco De Gregori per il lavoro fatto.