Dopo dieci anni torna a Roma, una delle opere più famose del repertorio popolare, il Don Pasquale di Gaetano Donizetti. Il nuovo allestimento vede, sul podio e alla regia una coppia artistica che ha incassato nelle ultime due stagioni una serie di successi con L’elisir d’amore (2011) e con Il barbiere di Siviglia (2012): Bruno Campanella e Ruggero Cappuccio. Una squadra vincente che si arricchisce delle scene di Carlo Savi e dei costumi di Carlo Poggioli – maestro del Coro Roberto Gabbiani – che vede nelle voci in scena la sua punta di diamante. Un doppio cast di giovani talenti già amati dal pubblico internazionale che elenca la voce e il fisico possente di Nicola Alaimo nel ruolo di Don Pasquale (si alternerà con Andrea Concetti il 19, 21 e 23 giugno), la grazia di Eleonora Buratto e di Rosa Feola (19, 21, 23 giugno) che si avvicenderanno nel ruolo di Norina, la freschezza di Joel Prieto (Edgardo Rocha canterà il 19, 21, 23 giugno) nei panni di Ernesto e la verve ironica di Mario Cassi e Alessandro Luongo (19, 21, 23 e 25 giugno) in quelli del Dottor Malatesta.La strepitosa facilità creativa di Gaetano Donizetti trova in quest’opera, nell’equilibrio perfetto tra gli elementi comici, melodici e la leggerezza dei personaggi, la sua forma più compiuta e originale che ha reso Don Pasquale l’opera maggiormente rappresentata all’estero, ancor più che in Italia, di Donizetti.
Occorre ricordare che al “Théâtre des Italiens” parigino, il 3 gennaio 1843, (“prima” mondiale del lavoro) il ruolo di “Don Pasquale” era interpretato da Luigi Lablache, che maturo ma prestante, con altri due interpreti della serata- Giulia Grisi e Antonio Tamburini- aveva portato al trionfo “I Puritani di Scozia” di Vincenzo Bellini. Il libretto firmato da Giovanni Accursi (ma in realtà di Giovanni Ruffini) , inoltre, è chiaro: Don Pasquale, zitello sulla quarantina, è ancora “ardito” (sessualmente, parlando), sente “un foco insolito”, si “strugge d’impazienza” al pensiero di “prender moglie”. In effetti, l’età dei quattro personaggi del capolavoro di Donizetti è più o meno la seguente: Don Pasquale è sulla quarantina, il mefistofelico Dottor Malatesta sulla trentina, il “nipotino” Ernesto (cresciuto dal Don come se fosse un figlio) ha sì e no 25 anni e Norina tra i 18 ed 20. Sono passati poco più di due lustri dal rossiniano “Le compte Ory”, ultima opera sfacciatamente erotica (dalla prima all’ultima nota) di compositori italiani prima che il capitolo venga riaperto (ma dopo oltre 70 anni) dalla pucciniana “Manon Lescaut”: nel 1843, nel teatro lirico italiano sta per iniziare la notte dell’eros del melodramma verdiano. Già malandato e precocemente invecchiato, Donizzetti, che aveva scavato nell’eros con le tre opere dedicate alle tre regine Tudor e nel 1840 aveva composto la carnalissima “La Favorite”, guarda in “Don Pasquale” con ironia al mondo, inebriando di champagne un canovaccio vetusto. L’ironia non ha nulla di farsesco – come ci dice una delle partiture più raffinate e, quindi, più difficili di Donizetti ed una vocalità che, nel 1843, aveva richiesto gli interpreti dell’apoteosi del “bel canto”. E’ intrisa di leggera malinconia; il terzo atto pare preconizza lo sveviano “Senilità”.
Perché questa premessa? L’iconografia tradizionale (formatasi nella seconda metà del XIX secolo) mostra un Don Pasquale vecchio e brutto, un Ernesto malandrino, una Dorina tutto pepe (ma poco eros) ed un Malatesta furbrasto. Il Teatro dell’Opera di Roma hale carte per regalarci un “Don Pasquale” all’insegna del “fuoco insolito” del quarantenne alla ricerca di una moglie giovane, bella, sexy e sottomessa.
È un’opera scintillante, di eleganza raffinata, scritta per Parigi dove Donizetti è un compositore affermato. L’archetipo comico del vecchio amoroso e della vedovella scaltra gli viene dalla memoria, dalSer Marcantonio di Anelli, musica di Pavesi, del 1810, semplificato e personalizzato. C’è la Roma che il giovane Donizetti ha frequentato, nella casa borghese di Don Pasquale. Protagonista è un buffo, tipologia di cantante caratterista di cui Donizetti ha appreso a Napoli la tecnica di recitazione ammiccante, dizione scandita, eleganza, canto sillabato vorticoso; il compositore si immedesima nel buffo Don Pasquale e lo trasforma in personaggio, un po’ autobiografico nella malinconia; proietta caratteri comici anche sul baritono, che per finzione condivide le reazioni di Don Pasquale ma è anche artefice del suo matrimonio per burla a favore della brillante vedovella e di Ernesto, il nipote a cui lo zio non vuol concederla. È magnetica la scena del Dottore che insegna alla ragazza a presentarsi da semplicetta e la prontezza di lei, decisa a tutto. Successo immancabile, con l’imprevisto di Ernesto, non avvertito, che viene a congedarsi dopo una stupenda aria con tromba e diventa testimone sbalordito, e poi divertito alla fulminea metamorfosi della sposina sottomessa in capricciosa provocatrice. Irrefrenabili le conseguenze, fra andirivieni di fornitori dispendiosi e commentare spumeggiante, a valzer, del Coro di servi; si fronteggiano la “civettella” che corre a teatro e il “marito”, e lei gli dà uno schiaffo. La commedia precipita in verità. Il vecchio, offeso, piomba nella desolazione, le parole gli escono frantumate (È finita, Don Pasquale) e orchestra, pubblico sono dalla sua parte, perfino Norina che, sulla stessa melodia delLarghetto, commenta “È duretta la lezione”. Elegiaca, ma infida, lascia cadere un biglietto di convegno amoroso. Ma quando la Serenata avvolge il giardino, su un sussurrare di chitarre e tamburelli come nelle trattorie romane, e il duetto avvince i due giovani innamorati, siamo tutti con loro, per la loro giusta felicità da cui il vecchio è escluso. Pur di liberarsi dalla moglie, più rassegnato e saggio, li perdona.