Quest’anno di grazia 2011, “La Battaglia di Legnano”, composta da Verdi (su un pessimo libretto di Cammarano) nei mesi in cui si preparava la nascita della breve Repubblica Romana del 1849, ha ben tre allestimenti: uno del Teatro dell’Opera di Roma (in collaborazione con il Liceu di Barcellona), una alla Scala e una a Busseto. La prima è andata in scena il 24 maggio; la recensione si basa sulla rappresentazione di quella sera. A Milano e Busseto l’opera arriverà in autunno.
Emerge da un lungo letargo. Le ultime edizioni che si ricordano sono quella romana del 1983 e quella del circuito emiliano del 1999. Viene di norma associata a celebrazioni; dopo la prima assoluta al Teatro Argentina il 27 gennaio 1849 (e uno strepitoso successo per un mese), riapparve un paio di volte alla fine dell’Ottocento (subito dopo la breccia di Porta Pia), nel 1916 (Prima Guerra Mondiale) con interpolazioni di Gabriele D’Annunzio, nel 1951 (centenario della Seconda Guerra d’Indipendenza) e nel 1961 (centenario dell’unità d’Italia). Poco rappresentata all’estero – ne ricordo una messa in scena, con regia vagamente ironica, negli Usa degli Anni Settanta – era di repertorio a Budapest dal 1970 al 1990, in chiave di libertà dal giogo sovietico.
La musicologia italiana la considera un passo indietro nello sviluppo di un Verdi che aveva già prodotto capolavori come “Macbeth” e “Ernani”. Il dramma – peraltro copiato da una “pièce” eroico-napoleonica francese su una battaglia di Tolosa del 1814 – è inesistente: un triangolo amoroso in un quadro storico di maniera. Pur se la Repubblica Romana avrebbe costretto il Papa a scappare a Gaeta non c’è segno di anti-clericalismo. Musicalmente, a una buona compatta overture, fanno seguito quattro brevi atti in cui cabalette amorose si alternano a cori enfatici.
Occorre dare atto al Teatro dell’Opera di Roma di avere trattato egregiamente, anzi nobilitato, questo “pastiche”. In primo luogo, già il tema spruzza patriottismo da ogni nota che la regia (Ruggero Cappuccio; scene e costumi di Carlo Salvi), invece, di forzare la mano, situa la vicenda in un imprecisato Novecento all’interno di un museo in restauro, dove battaglie e amplessi amorosi sono nelle tele e nelle statue su cui i restauratori lavorano; quindi, niente castelli, chiese e campi di battaglia di cartapesta. Il pubblico pare avere gradito questa scelta.
In secondo luogo. Pinchas Steinberg (maestro concertatore) e Roberto Gabbiani (direttore del coro) hanno tenuto serrati gli aspetti musicali, evitando enfasi e dando tempi ben modulati, ma tesi, alla partitura (i quattro atti sono divisi da un unico intervallo). C’è stata qualche sbavatura del coro all’inizio, ma il complesso è stato di altissimo livello nel quarto atto dov’è il vero protagonista.
In terzo luogo, un cast vocale di grande livello. Ha trionfato il giovane tenore coreano (dalla perfetta dizione italiana) Yonghoon Lee sin dalla cavatina iniziale al commovente addio alla vita finale. A meno di 30 anni è una star negli Usa e in Germania; nel suo debutto italiano conferma la chiarezza di timbro, il delicato legato e la capacità di “riempire” con la sua voce platea e palchi. Tatiana Serjan (già ascoltata a Milano, Bologna e Ravenna) conferma di essere uno dei rari soprani drammatici d’agilità. Versatile, come sempre, il baritono Luca Salsi. E di effetto in due piccoli ruoli Dmitry Beloselskiy e Gianfranco Montresor. Gli applausi non sono stati di mera cortesia. Il Teatro farà un’ottima figura a Barcellona.