Perché Bob Dylan prima era solito stravolgere la scaletta dei concerti, serata dopo serata, ed ora invece ripete le stesse canzoni fino allo sfinimento? Cosa porta Bob Dylan, con un patrimonio compositivo sconfinato, a suonare sette canzoni riconducibili a Frank Sinatra in una stessa sera?
Dylan è da sempre uno degli artisti più enigmatici e indecifrabili ma per questi motivi anche uno dei più affascinanti. Interpretare Dylan è sempre stato difficile e laddove si è provato a farlo spesso si è sbagliato. Eppure domande sul suo conto ne emergono sempre tante.
Il primo di ottobre è ripartito da Oslo il Never ending tour che chiuderà temporaneamente i battenti a Milano con due date al Teatro Arcimboldi e che finora ha avuto il momento culminante nelle cinque date nella magica Royal Albert Hall di Londra (in cui Dylan ha presentato cinque setlist praticamente identiche). Col tempo ci siamo abituati a certe su stranezze del tipo rivolgersi al pubblico tra i due set di canzoni solo per informare della presenza di un intervallo oppure a vederlo indossare abiti fuori dal tempo con spade e fiori ricamati, lunghi cappelli e stivali da cowboy.
Prendere o lasciare questo è il Dylan che si presenta ai suoi fan nel 28esimo anno del suo tour senza fine e che lo ha visto esibirsi in quasi mille città per un totale di quasi tremila concerti (70-120 all’anno).
Da quando il tour autunnale è partito, Dylan & His Band hanno eseguito venti canzoni a sera per un totale di sole 23 canzoni di cui ben dieci già interpretate da Frank Sinatra. Il che sicuramente rappresenta un fatto nuovo e bizzarro.
Nel breve, con ogni probabilità molte domande sul suo conto rimarranno inevase e non faranno che alimentare il mistero di Bob Dylan artista e di Robert Allen Zimmerman uomo. Nell’attesa che Dylan possa in parte svelarsi nei volumi successivi di Chronicles, a cercare di interpretare i comportamenti e i significati delle parole già ci pensano i numerosi e ottimi siti di dylanologhi sparsi nel web che catalogano e che studiano con attenzione ogni traccia lasciata dal “Columbia Recording Artist”.
Del resto quale sarebbe potuta essere l’impronta della nuova tournée lo si sarebbe potuto intuire nella penultima puntata del David Letterman “Late Show”. Potendo scegliere una sola canzone davanti a milioni di spettatori, Dylan non ha presentato un suo greatest hit bensì, nello stupore generale, ha eseguito “The Night We Called It a Day” di Sinatra.
Dylan è sempre stato un precursore, ha cambiato e rivoluzionato la musica. Ma se è sempre stato avanti coi tempi, perché allora riproporre canzoni degli anni cinquanta o precedenti?
Solo per promuovere il suo ultimo album di cover Shadows in the night pubblicato a febbraio? Può anche essere, ma non è solo quello. Il bello è che Dylan presenta anche canzoni cantate da Sinatra non incluse nell’album come “All or Nothing at All”, “Come Rain or Come Shine,” e “Melancholy Mood”.
Che bisogno ha Dylan di pescare delle cover, proprio lui che è secondo forse solo ai Beatles per numerosità dei brani “prestati” ad altri artisti? Quante volte ho sentito dire da amici: “Ah pure questa canzone è di Dylan”? Jimi Hendrix con All Along The Watchtower, i Rolling Stones con Like a Rolling Stone, i Guns N’Roses con Knockin’ on Heaven’s Door, i Byrds con Mr. Tambourine Man e ancora i Pearl Jam con Masters of War, con le loro interpretazioni hanno reso ancora più celebri le composizioni dell’artista del Minnesota.
La sorpresa, ma anche il vero motivo per cui vale la pena di andarlo a vedere, è proprio questo. Dylan sta offrendo il meglio di sé dal vivo presentando le canzoni che non sono del suo repertorio. Eppure è paradossale perché la sfida è davvero impossibile. “Nessuno canta il blues come Blind Willie Mc Tell” diceva Dylan. Allora a maggior ragione, come si può cantare Sinatra meglio di Sinatra? E poi proprio Bob Dylan, strenuamente difeso dai fan ma a cui i suoi detrattori contestano una voce brutta e pure stonata (ma questa è una eresia), come può cantare “The Voice”?
Eppure la voce di Dylan, la migliore di questi ultimi anni, dal vivo risulta straordinariamente potente e intensa. Pulita, anche se pur sempre roca, fa tenerezza da quanto è incredibilmente umana e capace di rendere le interpretazioni di Autumn Leaves, Full Moon and Empty Arms e What’ll I do: vere, oneste e commoventi. Piuttosto ci sono alcune sue canzoni come Beyond Here Lies Nothin’e Spirit on the water che alla lunga stanno stancando e sarebbe opportuna una rivisitazione della scaletta. Le canzoni “nuove” invece vengono accolte con rispettoso silenzio dal pubblico e, a giudicare dagli applausi, risultano anche ottimamente apprezzate.
L’intensità delle esecuzioni è talmente potente ed emozionante che trasferisce virtualmente tutto il pubblico dei teatri/palazzetti in un piccolo e fumoso night club degli anni cinquanta. È proprio vero allora, siamo noi che non abbiamo capito e che non capiremo mai fino in fondo l’arcano di Bob Dylan. Da qualche anno è solito aprire i concerti con Things have Changed: “La gente è pazza e i tempi sono strani, mi sento messo in gabbia, mi sento fuori gara, una volta m’importava, ma le cose sono cambiate”. Eh già, ancora una volta ha ragione lui.
Da quando il Never ending Tour è partito, non si è mai visto un Dylan così solo, spoglio e sincero. Proprio adesso che a 74 anni il suo cammino verso il Mistero è più vicino, ci sta svelando il suo lato più umano. Soli si arriva e soli si va, ma nel mentre tutti abbiamo l’occasione di fare un incontro, almeno uno, che ci possa riempire il cuore. Che sia allora tutto riconducibile ad un fatto d’amore? Quell’amore malato di Love Sick con cui è solito chiudere l’esibizione in questi ultimi concerti? Come tutti gli innamorati, come tutti i malati d’amore, anche Bob Dylan sente l’esigenza di seguire il proprio cuore. E allora il Never Ending Tour, le sue interpretazioni, il suo pubblico e Sinatra diventano una questione d’amore. Solo così si può spiegare con razionalità e ragionevolezza una corrispondenza del cuore. “Sono malato d’amore, se solo non ti avessi mai incontrato. Sono malato d’amore, vorrei dimenticarti”.