“13” è il nuovo disco in studio dei Black Sabbath, il primo dal 1995, il primo in 35 anni registrato assieme alla line up originale, quella con Geezer Butler al basso e Ozzy Osbourne alla voce. Line up quasi del tutto originale, dovremmo dire, visto che il batterista Bill Ward è stato estromesso subito dopo la sbandieratissima conferenza stampa hollywoodiana dello scorso anno, quella che aveva annunciato la reunion e l’arrivo del nuovo disco.
Una vicenda, quella dell’allonanamento di Ward, che si è trascinata per mesi a colpi di avvocati e dichiarazioni al vetriolo sulla stampa; una telenovela i cui dettagli non sono mai stati chiariti e che ha gettato forti ombre sulla genuinità di certe operazioni musicali.
È del resto evidente che coi tempi che corrono, spremere il più possibile dai vecchi dinosauri del rock, nomi che nel bene e nel male offrono sempre una garanzia, rimane l’unica soluzione per capitalizzare un po’ di denaro.
La storia dei Black Sabbath parla da sé: la band di Birmingham, considerata da molti come il primo gruppo heavy metal della storia, ha raggiunto l’apice della fama grazie ai dischi registrati con Ozzy Osbourne dietro il microfono, nel periodo 1970-78. Dischi come “Paranoid”, “Vol. 4” o “Master of reality” hanno senza dubbio contribuito a consegnare ai posteri il nome del quartetto ma è anche vero che quello che è venuto dopo non è stato di meno in quanto a fascino.
Il marchio Black Sabbath, anche dopo lo scioglimento della formazione originaria, è stato sempre portato avanti dal chitarrista Toni Iommi e anche se non sempre è arrivato il successo commerciale, la qualità della proposta raramente è venuta a mancare.
Che siano state le atmosfere maggiormente epiche e classicheggianti del Mark II con Ronnie James Dio o lo splendido hard melodico dei sottovalutatissimi “Tyr” e “Headless Cross” registrati assieme a Tony Martin, resta il fatto che almeno fino all’inizio degli anni ’90 questa band non ha mai cessato di far parlare bene di sè.
Nel 2007 Toni Iommi aveva chiamato a sè Dio e il batterista Vinnie Appice e aveva rimesso in piedi la squadra vincente del Mark II. Opportuno cambio di monicker per non irritare Ozzy (il nome Black Sabbath fu sostituito da Heaven and Hell ma la sostanza rimase uguale) e c’era statq l’uscita di un disco, “The devil you know”, di pregevole fattura, corredato da due live album anch’essi di altissimo livello.
La prematura dipartita di Ronnie James Dio, scomparso per un tumore allo stomaco nel 2010, ha interrotto una storia che avrebbe probabilmente potuto dare esiti ancora più interessanti.
Sotto con Ozzy, dunque. Del resto l’età di tutti i membri è quella che è e spremere il più possibile dal nome del gruppo sembrava la cosa più importante da fare.
Sarà anche triste, ma è bene metterlo in chiaro: di sincero, in questo “13”, c’è veramente poco. Semplicemente, dopo tanti anni, serviva un nuovo disco per rimanere sulla cresta dell’onda, nulla di piu. Già il titolo, comunque, dice di una lettura artificiosa della storia: questo è infatti l’album numero tredici (e uscito nel 2013) contando solamente quelli realizzati con Dio e Ozzy dietro al microfono. In questo modo, con un rapido colpo di spugna, vengono cancellati tutti i lavori con Tony Martin (almeno tre di livello stratosferico, come ho già detto) ma anche la brevissima parentesi di “Born Again”, in compagnia dell’allora ex Purple Ian Gillan. Ma si sa, la storia è capricciosa e pretende di essere raccontata solo in determinati modi.
Arriviamo finalmente al dunque: com’è questo disco? Il fatto che possa essere definito superfluo non significa che sia anche brutto. Del resto Toni Iommi rimane un ottimo riff maker e l’aver ultra centellinato le uscite discografiche negli ultimi anni gli ha fornito senza dubbio quintali di materiale a cui attingere. A produrre il tutto è stato chiamato Rick Rubin, che è uno che di vecchie glorie se ne intende (ha lavorato anche con Slayer, Metallica e Johnny Cash, tanto per capire) e il posto di Ward è stato preso da Brad Wilk dei Rage Against The Machine, non esattamente l’ultimo arrivato.
Insomma, c’erano tutte le condizioni perché venisse fuori un lavoro di livello ed effettivamente questo è stato.
“13” suona esattamente come un disco dei Sabbath dovrebbe suonare: cupo, lento, massiccio, oscuro, con un suono e una produzione debitamente aggiornati ai tempi moderni. Le sperimentazioni, in quasi quarant’anni di carriera, sono state tante ma oggi non servono più: chi compra un loro disco nel 2013 deve avere ciò che desidera. E nella maggior parte dei casi, questo desiderio si riduce nell’avere indietro il marchio di fabbrica dei primi dischi della band.
Così, la coppia iniziale “End of The beginning” e “God si dead?” (quest’ultima scelta come primo singolo) fotografa al meglio quelle che sono le coordinate stilistiche di questo lavoro: incidere cupo, ossessivo, con la chitarra di Toni Iommi a dettare le atmosfere per mezzo di riff efficaci, nonostante siano tutti in odore di deja vu. Durata media consistente (attorno agli otto minuti, anche se ci sono cose più concise) e struttura che ripete più o meno lo stesso schema fatto di una parte lenta iniziale, un accelerazione centrale e un solo finale di Iommi (sempre molto ispirato, da questo punto di vista). Che dire di Ozzy? La sua voce non è mai stata un miracolo di eleganza e non è un mistero che il suo successo risieda più nel personaggio che è riuscito a creare e nei chitarristi che si sono occupati del suo songwriting da solista, piuttosto che nelle sue effettive capacità di cantante. Resta il fatto che, dopo le pagliacciate degli ultimi anni, vederlo fare semplicemente il cantante, sia già di per sè un’ottima notizia.
Al sottoscritto il suo timbro non è mai piaciuto più di tanto: a tratti non sono riuscito a fugare l’impressione che questi pezzi, con Dio o Martin ad occuparsi delle linee vocali, avrebbero potuto diventare tutt’altra cosa.
In generale, si lavora molto di mestiere e alla fine dell’ascolto (53 minuti, una durata tutto sommato sopportabile) la sensazione è che un qualche risultato sia stato portato a casa senza troppi problemi. Se un po’ di noia può subentrare dinanzi all’ennesimo pezzo troppo lungo (“Age of reason” da questo punto di vista è un buon esempio), è anche vero che ci sono episodi come “Loner”, un buon mid tempo potente o ancora “Zeitgeist”, insolita ballata dalle atmosfere eteree, o “Damaged Soul”, che è un interessante blues ovviamente riletto in chiave Sabbath. Tutte cose che contribuiscono a spezzare un’atmosfera che altrimenti si sarebbe fatta troppo monolitica.
Avessero terminato la loro carriera nel 1995 all’indomani dello scialbo “Forbidden” (ultimo tassello di una formazione che perseguiva comunque un proprio itinerario artistico), non so in quanti si sarebbero lamentati. Tutto quanto fatto da lì in avanti, a partire dalla prima reunion con Ozzy nel 1998, è stato solo un tentativo di capitalizzare il più possibile e di dare una chance ai più giovani, che non avevano vissuto i giorni della vera gloria.
Questo “13” non è da meno. Il risultato è decisamente superiore alle aspettative ma suona un po’ troppo vicino ad un meraviglioso falso d’autore. Per avvicinarsi ad una band così importante il metodo rimane sempre quello: comprate i dischi storici e buttatevi su questo se proprio sentite un bisogno di completezza.