Il gruppo corale più famoso al mondo, i più invidiati, discussi, imitati, amati, (quasi) idolatrati. Paiono lontani dalle vicende umane, appollaiati sui troni dell’Olimpo, invisibili agli occhi dei comuni mortali. Quando entrano in una sala da concerto lo fanno con passo felpato, sorrisetto, occhi socchiusi, lemuri in abito scuro, canore larve pallide, arcangeli cantori. Dalle tasche non spunta neanche un piccolo diapason. Orecchio assoluto, tecnica mostruosa, attaccano a freddo come aprissero il Times. Voci asessuate, senza sbavature, abbacinanti.
Tutte le sfumature del bianco. Il pubblico che li ammira contempla un’eufonia sonora che tutto può, si abbaglia di quell’emissione metafisica e androgina. Dalle loro bocche escono dissonanze ai limiti dell’eseguibilità, glissati, linee spezzate, disarticolazioni foniche, frattali di suono. Il compositore sa che può scrivere qualsiasi cosa (logica, sensata, artistica): loro la canteranno.
Vibrato minimo, intonazione miracolosa, fiati che non finiscono mai, incastri raffinatissimi, chiusure millimetriche, fusione spettacolare. Qualità ideali per certo repertorio: il morbido cilicio di Arvo Pärt, i suoni ghiacciati di James McMillan, atemporali canti armeni, intelligentissime commissioni a compositori d’oggi.
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Nel repertorio più consueto convincono meno: il gregoriano dell’Hilliard è querulo e poco espressivo, la polifonia rinascimentale risulta piatta, fredda, devitalizzata, insoddisfacente la resa emotiva del testo. In certi brani d’oggi (Metcalf, Moody) passano in rassegna una passerella di materiali, tessiture, soluzioni vocali.
In Pärt impressionano la delicatezza di emissione e la pitagorica purezza delle consonanze, quasi armonia di sfere celesti. I brani contemporanei sono sempre diamanti esposti in teche di cristallo. La personalità interpretativa del gruppo vocale inglese è così forte e invadente che diventa essa stessa l’oggetto dell’attenzione, più che soggetto attivo nella ricreazione di musiche altrui. Lo stile Hilliard fagocita le diverse personalità stilistiche, le bagna in una dura, levigata, manierata perfezione che ricorda la liscia scultoreità del Canova.
Il controtenore David James crea il sound inimitabile del gruppo, ma quando canta da solo il suo falsetto risuona piagnucoloso, perfino indisponente. Avverti sentore di narcisismo che toglie vibrazione alle singole esasperazioni linguistiche, accomuna epoche e scritture diverse, smussa tic, contraddizioni, asperità, zigrinature. Belli, serafici, un poco senz’anima.
L’artista svelando il mistero, lo vela. Sul fondo della partitura fa balenare la grazia del non detto, l’eleganza del gesto ambiguo, l’emozione muta dell’incompiutezza. L’Hilliard chiarisce ogni enigma. Quanto più opaco, indifeso, incoerente appare l’oggetto artistico, tanto più dolcemente ci ospita. L’Hilliard, in certi momenti, mette a disagio: uomini o replicanti?
(Enrico Raggi)