Il cofanetto celebrativo dei 30 anni dalla pubblicazione,cmi da la possibilità di approfondire e continuare a meravigliarsi davanti alla bellezza di Crêuza de mä, album che in poco più di mezz’ora ha dettato un nuovo vocabolario, nel quale viene declinata nella maniera migliore l’espressione World Music.
Se a tale espressione associamo suoni senza confini e dalla geografia illimitata, senza fermarci a sterili e autocompiacenti esercizi di stile alla Peter Gabriel, Crêuza de mä ne rappresenta l’alfa e l’omega, poiché mai tale concetto è stato sviscerato e rappresentato meglio che in queste sette canzoni.
Il matrimonio artistico tra De André e Pagani ha prodotto una sorta di Odissea in salsa ligure, un’elegia del Mediterraneo mare, padre, madre e matrigna di una umanità che lontana dalla maestosità degli oceani ha creato un suo mondo e soprattutto un suo linguaggio.
Lingua che non poteva essere altro che lingua di porto, lingua dialettale, dalle mille influenze e derivazioni, lingua che avvolge, con la sua musicalità, che addolcisce le volgarità e le asprezze con l’eleganza imbastardita di quel “belìn” così crudo nel suo significato carnale, ma altrettanto accettabile con un sorriso anche in ambienti più sofisticati.
Un disco di acqua, di strade, viaggi, fughe, lontananze e malinconie, ma di acqua, principalmente, a partire dal titolo.
Quella creuza, sentiero o mulattiera, che viene intesa come rotta, magari non visibile subito e ad occhio nudo, come corrente d’aria che muove le vele e porta avanti il marinaio, verso luoghi sconosciuti.
Perché Genova, come tutte le città di mare, dal mare è costantemente influenzata, attratta, sedotta. Tutte le strade, perfino i vicoli più ostici, al mare portano, nel mare trovano sbocco. E come tutte le popolazioni di mare, i genovesi, i liguri hanno dentro di sé l’inquietudine delle maree, l’ansia del viaggio, la voglia di ripartire dei marinai.
La creuza, che simboleggia anche un confine, l’estremo prima di una nuova proprietà, da il titolo all’album e ne inizia il racconto, parlando proprio di quei figli inquieti, che sentono la mancanza di casa, ma non riescono a fermarcisi più di tanto: emigranti della risata, legati a quella corda che trattiene l’ancora, che li lega e li fa partire verso nuovi sentieri, nuove creuze, appunto.
Il genovese, scelta qui come lingua universale di una ipotetica popolazione unica del mediterraneo, risponde perfettamente alle caratteristiche che De André e Pagani cercavano, al punto da pensare di doversi inventare un linguaggio nuovo tout court: nella mia piccola esperienza di ligure in viaggio, ricordo perfettamente la musicalità della parlata portoghese, che sorprese me e mia moglie in luna di miele, al porto di Lisbona, quando pensammo, mangiando bacalau e bevendo porto, di essere seduti di fianco a due signori di Genova Molassana, quando in realtà erano due anziani nativi, che parlavano un portoghese strettissimo e meravigliosamente “genovese”. Una lingua musicale appunto, che nel corso degli anni verrà riutilizzata da De Andrè per altre composizioni.
Nel corso di questo viaggio lungo la creuza, incontriamo personaggi che sublimano quell’universo di uomini, donne, anziani, giovani da sempre presenti nei testi di Faber. A partire da Jamin-a, prostituta di colore, che riceve i suoi clienti in un “basso”, magari non a Genova, ma sicuramente vicino ad un qualche porto; possiamo sentire, possiamo respirare nel ritmo caraibico della canzone l’umidità della stanza, il suo arredamento povero, possiamo sentire il sudore del rapporto consumato magari in pieno giorno, al caldo soffocante del sole estivo, l’eccitazione del cliente che trova in questa Sultana delle bagasce una fugace consolazione per un amore lontano. Una canzone che meglio di ogni altra mette in musica il sesso; lo fa utilizzando un ritmo del sud, dove la passione è gioia e il sesso una festa, lo fa con una chiarezza di termini tale da far sembrare “Whole lotta love” un pezzo morigerato. Ma si sa, i marinai non vanno tanto per il sottile.
Di tutt’altro tenore è, purtroppo, Sidùn, che prende spunto dal massacro ordito dalle truppe israeliane in Libano, nel 1982. La “piccola morte” del bambino, cantata con voce straziante e straziata dal padre, simboleggia non solo i tanti “piccoli” drammi che la popolazione civile vittima di stragi come questa deve subire, senza avere nemmeno la soddisfazione della considerazione che quantomeno meriterebbe, ma la silenziosa scomparsa di una intera cultura, quella Libanese, cancellata a forza, schiacciata anch’essa sotto i carri armati di chi aveva deciso che in quelle terre, dei loro padroni legittimi non avrebbero dovuto più crescere né alberi, né frutti, né tanto meno vite umane. Le voci registrate a inizio brano, notiziari accaldati e rumori di elicotteri, ma soprattutto il lamento funebre finale, ovviamente con voci femminili, con voci di madri rendono perfettamente la drammaticità della situazione.
L’astuzia, la furbizia e l’opportunismo del genere umano hanno sempre ispirato le canzoni di De André, che qui ci fa conoscere Cicala, personaggio realmente esistito, la cui storia ci dimostra come alla fine, non sempre, anzi raramente siano gli ideali a far muovere il mondo.
Cicala decide di non combattere contro gli arabi che assaltano la sua barca, per non “remenarlo alla fortuna” e accetta che il suo lavoro si trasformi in “travaggiu dùu” (schiavitù), perché alla fine che i suoi padroni siano arabi o genovesi, a lui poco importa.
Tale atteggiamento gli consentirà, stando alla leggenda, di diventare addirittura Gran Visir, cambiando il nome, appunto in Sinàn Capudàn Pascià, nome con il quale vorrebbe essere ricordato; non fa niente, dice lui, se mi chiamano traditore o rinnegato, le mie ricchezze io le ho guadagnate lavorando allo stesso modo, cambiando solamente il destinatario delle mie bestemmie.
La durezza, la volgarità del linguaggio portuale, dei cosiddetti “scaricatori di porto” serve qui come metafora per raccontare questo atteggiamento cinico e disincantato di chi non fa distinzione di colore tra i suoi padroni, perché sempre padroni restano. Quindi, per lui, prendersela con Maometto o con Gesù è esattamente lo stesso. Macchiavelli avrebbe avuto molto da imparare.
Un altro personaggio caratteristico, ricco di contraddizioni ma anche di umanità è la pittima, sgradevole nomignolo affibbiato a chi era talmente noioso, insistente e petulante da fare come lavoro il riscossore dei crediti altrui.
Questa sorta di Equitalia ante litteram ha comunque una sua morale, dovuta magari anche dai limiti fisici che la natura gli ha imposto. Essere magro, non avere spalle larghe né pugni forti lo ha ridotto a fare questo lavoro, nel quale però lui cerca di ottenere un po’ di rispetto, perché, con logica da venditore impeccabile, vivere costa caro, ma tutto sommato a buon mercato.
L’umanità della pittima, come spesso accade nei personaggi più scomodi delle canzoni di Faber, emerge in chiusura, quando ci racconta che se proprio il debitore è uno straccione, lui gli da del suo.
L’abito non fa il monaco, a quante delle canzoni di De André potremmo applicare questo luogo comune, personaggi magari a prima vista impeccabili o irrecuperabili, che ribaltano il pregiudizio iniziale, sorprendendoci e, come in questo caso, regalandoci una grande lezione di solidarietà.
L’amore di Faber per gli ultimi, per gli emarginati, ha sempre trovato nelle prostitute un simbolo per cui combattere; ecco quindi che il racconto di questa tradizione, la passeggiata in città delle ragazze costrette a lavorare nella zona portuale (e dove sennò?), è il pretesto per sottolineare l’ipocrisia dei perbenisti. Perché alla fine di questa lunga passeggiata nei quartieri “bene” della città, queste ragazze, vittime di ogni tipo di insulto e dileggio, per colpa della loro professione, ma, si badi bene, insultate e dileggiate dai loro stessi clienti, da chi grazie a loro si arricchisce ed addirittura dai loro mariti ottusi, sono le persone più pulite, più limpide e più oneste di tutte quelle incontrate nelle vie cittadine, tra direttori di porto e beghini da processione.
Siamo negli stessi vicoli e davanti alle stesse persone che popolano “La città vecchia”, dove non a caso si diceva “quella che di giorno chiami con disprezzo, pubblica moglie quella che di notte stabilisce il prezzo, alle tue voglie”.
L’album si chiude con la struggente D’à me riva, canto di amore e malinconia, che il viaggiatore, lo stesso che magari sfoga i suoi istinti in quartieri malfamati e rinnega il suo Dio, dedica alla sua terra, al porto di casa da cui si sente lontano. La nave si sta allontanando e della sua amata ormai riesce a scorgere solo il fazzoletto che serve a salutare e a nascondere le lacrime, le stesse che riempiono gli occhi del protagonista, causate dall’ostinazione con cui guarda contro sole, per non perdere il contatto, almeno visivo, con lei.
Una lei che rappresenta la casa, gli affetti, le radici, i legami che, nel momento della separazione assumono importanza enorme.
Il marinaio soffre per questo distacco, ma sa che, come si capisce dal suo misero bagaglio, il suo sarà un ritorno temporaneo, perché il mare chiama e i baci di cui sente già la mancanza li potrà dare soltanto sulla fotografia della sua amata.
Le versioni remixate di alcuni pezzi non aggiungono granché alla bellezza del disco; anzi in alcuni casi, Jamin-a e la stessa Creuza de mà, ottengono risultati assolutamente inferiori all’originale.
Molto interessante è la compilation live in genovese del secondo cd, dove, oltre a buona parte dell’album, con alcuni interventi parlati che approfondiscono le tematiche del disco stesso, troviamo una bella versione di due pezzi de “Le nuvole”, il seguito di Creuza de mà, quali “A’ cimma” e il rock blues di Megu Megun, il cui protagonista, tra intrecci, inciuci e sotterfugi, poteva benissimo far parte dell’odissea ligure del disco precedente.
A chiudere una versione di D’a mae riva di una bellezza abbagliante, con la voce del compianto Andrea Parodi a toccare vette di pura emozione, mentre racconta le pene di chi si sta allontanando; il video facilmente recuperabile di quella esibizione, registrata a Siena nell’estate 2004, mostra un Parodi già malato e sofferente, la cui interpretazione commuove dopo pochi versi.
La sirena del porto che apre l’album simboleggia l’ingresso, ma anche l’uscita dal porto di una imbarcazione. Si resta incantati, davanti alla banchina, nel vedere il movimento delle navi, immaginando chissà quali creuze seguiranno, prima di ritornare a destinazione.
Un disco attuale, come non può che essere un disco che parla di movimento, di emigrazione, di intreccio e miscuglio di gente, parole, suoni, odori e vite.
Un disco eterno.
(Il Cala)