A volte non c’è bisogno di spendere un sacco di soldi per sentire della buona musica. Di band valide in Italia ce ne sono parecchie, basta sapere dove cercare. Qualche sera fa allo Spazio Musica, storico locale nel centro di Pavia, che quest’anno festeggia il trentennale dall’apertura, sono andati in scena i Miami & The Groovers. Originari di Rimini, la band capitanata da Lorenzo Semprini fa parte di quella prolifica scena di gruppi che guarda all’America del classic rock e del folk come sua principale fonte di ispirazione. Gente che ha eletto Chuck Berry, Bob Dylan, Bruce Springsteen, Neil Young, Tom Waits a propri numi tutelari e che da anni macina chilometri percorrendo in lungo e in largo la penisola, suonando anche nei luoghi più sperduti, per portare la sua musica a quanta più gente possibile.
Questa sera ritornano in questo posto che è un po’ una delle loro seconde case e lo fanno per una ragione speciale: sono infatti passati due anni esatti dalla pubblicazione di “Good Things”, il loro terzo disco; un lavoro che ha dato loro molte soddisfazioni, permettendogli di allargare il proprio bacino d’utenza e di compiere, nel loro piccolo, quel salto di popolarità che avrebbero comunque meritato sin dagli esordi.
Per il sottoscritto, che segue questa band più o meno da sempre ma che, per ragioni varie, non la vedeva dal vivo da anni, era un’occasione da non lasciarsi scappare. E così mi sono recato di buon’ora allo Spazio Musica, deciso a godermi lo show e a fare quattro chiacchiere con Lorenzo, per capire meglio il perché di questa serata particolare.
Arrivo che i cinque sono impegnati nel soundcheck e riesco così a godermi una robusta versione di “Back to the Wall” e una curiosa rilettura simil country di “Wreck on the Highway” di Bruce Springsteen. I suoni sono già belli definiti e il gruppo è già carico a dovere, non è immediato capire che si tratta di una prova generale.
Saluto Lorenzo e ci mettiamo in un angolo a parlare, mentre Alessandro Battistini, che aprirà la serata, regola i suoi volumi.
“Per noi questo è un concerto importante – mi dice il cantante e chitarrista dei Miami – Sono passati esattamente due anni da quando è uscito “Good Things” ma la presentazione programmata qui era saltata per una nevicata. Adesso abbiamo voluto organizzare una cosa per chiudere il cerchio di due anni intensissimi, fatti dal disco, dal tour e dalla pubblicazione del DVD “No Way Back”, che è uscito a ottobre. E quando si chiude una pagina, normalmente se ne apre un’altra. In realtà noi non ci fermeremo, continueremo a suonare perché essenzialmente siamo una band live, continueremo quindi a suonare anche mentre lavoreremo al prossimo album. Volevamo però fare queste due date, questa e domani a Poggio Berni, perché “Good Things” è un disco che ci ha dato molto e che, a distanza di due anni ci divertiamo ancora tanto a suonare e il nostro pubblico a cantarlo.”
In effetti i Miami sono da sempre una macchina da palco, loro e gli amici Cheap Wine (con cui condividono il tastierista Alessio Raffaelli) sono probabilmente tra le band che in Italia calcano il maggior numero di palchi. “Suonare dal vivo per noi è come respirare. Siamo nati sul palco, non in sala prove. Abbiamo centinaia di concerti alle spalle e sul palco ci troviamo a nostro agio, è la dimensione in cui riusciamo ad esprimerci al meglio”.
Ma siccome i fan desiderano anche ascoltare nuove canzoni, chiedo se ci sia già un nuovo disco in cantiere: “Questa sera suoneremo due brani nuovi, che in realtà proprio nuovi non sono, visto che li suoniamo da un po’ e che sono finiti anche nel dischetto bonus che abbiamo fatto uscire subito dopo “No Way Back”. Credo però che questo non ci impedirà di metterli nel prossimo disco perché sono due pezzi che ci piacciono molto. Per il resto posso dirti che sì, stiamo lavorando a nuove idee e che per fine anno speriamo di avere un disco pronto anche se è difficile prevedere, in questi casi. Cercheremo di mantenere quello che è da sempre il nostro marchio di fabbrica ma anche di inserire sonorità diverse rispetto al solito.”
Lorenzo è uno che si è sempre sbattuto molto e ha guadagnato per sè e per la sua band una statura internazionale che molti si sognano. Non è da tutti incidere pezzi con Joe D’Urso, suonare con Willie Nile o Michael Mc Dermott, o partecipare ogni anno al Light of Day, l’evento benefico organizzato da Springsteen nella sua Asbury Park e dividere il palco con il Boss in persona. Ma è proprio vero che all’estero ci vedono come dei provinciali?
“Abbiamo suonato in Svezia (dove torneremo a maggio), in Austria, Inghilterra, Stati Uniti. E una delle cose che mi ha colpito è proprio che ci hanno accettato sempre! È tutto molto immediato, diretto, spontaneo. Facciamo musica americana ma siamo italiani, non lo vogliamo mica nascondere e, anzi, questa cosa all’estero piace molto. In questi anni di partecipazione al Light Of Day abbiamo venduto un po’ di dischi e quest’anno è stato impressionante vedere degli americani che cantavano le nostre canzoni! La musica è un linguaggio universale, non importa da dove vieni, se fai buona musica vieni apprezzato, altrimenti no! In Italia siamo un po’ troppo provinciali, ci facciamo un po’ troppi problemi, mettiamo troppi steccati che non ci sono mentre invece dovremmo iniziare a renderci conto che l’unica differenza che esiste è tra la musica che emoziona e quella che annoia. Prendi anche questa storia dell’inglese cantato con l’accento italiano: ti giuro che è una cosa che notano solo qui! In America se ne fregano, anzi, piace anche! Del resto loro hanno un sacco di accenti diversi, se guardi la CNN ci sono reporter che hanno le origini più disparate e ognuno pronuncia la lingua a modo suo. Quindi, davvero, a volte mi sembra che noi esageriamo proprio!”
Ad aprire la serata ci pensa Alessandro Battistini. Il cantante dei Mojo Filter ha da poco pubblicato “Cosmic Sessions”, il suo primo disco da solista, un concentrato di folk rock da manuale, che guarda ai grandi nomi come Neil Young o Crosby, Stills, Nash ma affonda volentieri nelle cose più acustiche prodotte da Pearl Jam o Alice In Chains. È accompagnato dal chitarrista Francesco Cimini (Salty Frogs) e propone una manciata di brani da “Cosmic Sessions”, chiedendo ironicamente scusa al pubblico per l’atmosfera triste che li caratterizza. Una bellissima prova, la sua anche se per forza di cose ridotta. Lo attendiamo a band completa in uno show tutto suo, anche perché le canzoni sono bellissime e l’impressione è che dal vivo possano rendere ancora di più.
Rapidissimo cambio palco ed ecco i Miami & The Groovers. Si parte potenti con “Back to the Wall”, uno dei due brani nuovi di cui si parlava in sede di intervista. Incedere cupo, atmosfere epiche, per un pezzo che fa promettere grandi cose in vista del nuovo album. Segue una “Big Mistake” che fa già scatenare le prime file, dopodiché i cinque si tuffano nel primo disco “Dirty Roads”, con un meraviglioso trittico composto da “When the Tears Are Falling Down” (dove emerge il loro lato più folk), “Back in Town” e “Waitin’ For Me”, pezzo regalatogli da Joe D’Urso e inciso assieme a lui. È divertente vedere Lorenzo fare il diavolo a quattro sul palco, interagendo con la band per chiamare i finali e, soprattutto, sbizzarrendosi a cambiare la setlist secondo quello che gli passa per la testa. È cresciuto alla scuola di Springsteen e come lui ha a disposizione un gruppo rodato e preparatissimo, che ha nella sezione ritmica guidata dal batterista Marco Ferri un’autentica arma in più.
Bellissima la versione “Man in Black”, come dicono loro, di “Wreck on the Highway”, che viene proposta perché, proprio come nell’occasione che portò Bruce a scriverla, si sono imbattuti in un incidente mortale mentre venivano verso Pavia.
“Nasciamo come cover band – mi aveva spiegato Lorenzo poco prima, quando gli avevo espresso il mio stupore per come sanno personalizzare ogni singolo brano altrui che suonano – suoniamo sempre molto volentieri i pezzi degli altri, anche se oggi, col nostro repertorio che si è allargato, non abbiamo più così tanto spazio come prima. A tutt’oggi comunque abbiamo circa cento cover suonabili. Nei primi due dischi ne abbiamo anche registrata qualcuna. La cover, per un musicista, è una modalità di espressione: ci sono artisti, come Dylan o Springsteen, che pur avendo centinaia di pezzi nel loro repertorio, ancora propongono delle cover. Per noi è un modo di illuminare la propria storia e tutti, sia che suonino in un garage o in uno stadio, hanno una storia da ricordare. Suonare una cover è un modo per tornare a raccontare questa storia.”
Questa sera però è la serata di “Good Things” e allora, dopo un altro paio di brani dal precedente “Merry Go Round” (tra cui una “Sliding Doors” meravigliosa, col chitarrista Beppe Ardito nel ruolo di mattatore assoluto) ecco l’atteso annuncio che questa sera il disco sarebbe stato suonato dall’inizio alla fine. Lo sapevamo già tutti, ma il boato di entusiasmo esplode ugualmente.
E dunque via, per un’ora serratissima e senza pause l’esecuzione, pazzesca per energia sprigionata, di una delle perle del nostro rock. Un disco di una freschezza e di una immediatezza come le si trovano raramente in giro. Tanto che, sarà anche un pensiero un po’ azzardato, ma non può non venire in mente: se queste canzoni le avesse scritte Bruce Springsteen di recente, non ci saremmo scannati per tutti questi anni sull’effettiva qualità dei suoi ultimi dischi…
Dal trionfale anthem della title track, alle bordate di “Burning Ground” e “Under Control”, dal disincantato romanticismo di “Audrey Hepburn’s Smile” all’aperta melodia di “Walkin’ All Alone”, è una performance tirata allo spasimo in cui nessun minuto è superfluo, un’ora che il pubblico vive dall’inizio alla fine, canzone per canzone, cantando, ballando e versando litri di sudore.
Al termine dell’inno folk “We’re Still Alive”, il cui ritornello viene urlato fino allo sfinimento da tutti i presenti, si potrebbe già andare a casa. Ma ovviamente non ci pensa nessuno, i cinque sono carichi a mille e c’è ancora un bel po’ di roba da suonare.
Non manca ovviamente il classico “Broken Souls”, sottolineato dal grosso striscione che da un anno i fan più sfegatati portano in giro come un vessillo di battaglia.
Poi “Spotlight”, l’altro brano nuovo, una toccante ballata pianistica che nella seconda parte cresce d’intensità grazie all’esplosione di chitarre e batteria.
In chiusura, arrivano altre cover: una scatenata “I’ve Been Working Too Hard” di Southside Johnny, il duetto tra Lorenzo Semprini e Alessandro Battistini per l’immortale “Baba O‘ Riley” degli Who e infine, a mandare tutti a casa dopo due ore e mezza abbondanti, una meravigliosa “Sweet Jane” che rievoca il commosso ricordo di Lou Reed a cinque mesi dalla sua scomparsa.
Potenti, precisi, straordinariamente coinvolgenti, questi Miami & The Groovers hanno davvero poco da invidiare ad act ben più famosi.
Se vi capita, andate a sentirli: sono davvero un gruppo di cui andare fieri.