Tra le tante leggende metropolitane che dominano il teatro lirico e il suo pubblico c’è quella secondo cui La Bohème è un’opera di voci in cui buoni cantanti possono essere affiancati anche da maestri concertatori di routine. Nel suo volume su Puccini, Julian Budden ci ricorda come in quel periodo, invece, il compositore lucchese fosse particolarmente interessato dall’orchestrazione; in Manon Lescaut aveva mostrato di avere assimilato il sinfonismo wagneriano ed era alla ricerca di nuove strade per la musica del secolo che stava per iniziare. Pochi ricordano che La Bohème è stata tenuta a battesimo da Toscanini e che sia von Karajan sia Bernstein la consideravano tra le partiture orchestrali più difficili, e più belle, da dirigere. Ancora meno coloro che rammentano come 15 anni dopo la prima rappresentazione, le terzine del secondo atto appassionarono Stravinsky e che Debussy, il meno pucciniano dei compositori del periodo, in una conversazione con De Falla, disse, con una punta di rimpianto, che invidiava il suono dei fiocchi di neve nel terzo atto ottenuto con flauti, arpe e un violoncello.
Lo ha tenuto presente il Teatro dell’Opera di Roma affidando la concertazione della nuova edizione di La Bohème a uno dei maggiori specialisti di musica del Novecento, James Conlon a cui si deve la riscoperta di autori come Zemlisky, Korngold, Schreker, Ullman nonché le diffusione di Britten in tutto il mondo. In mano a Conlon, abbiamo La Bohème differente da quelle ascoltate con la concertazione di Oren, Gelmetti, e molti altri. E’ un’opera in cui l’orchestra è protagonista: intrecciando una quindicina di motivi tematici, introducendo dissonanze a quelle che dieci anni dopo avrebbero fatto il successo di Richard Strauss, si creano le atmosfere per palpare la gioventù come la sola stagione che non ritorna, per passare dai momenti lievi (quasi sognatori) del primo atto al ritmo incalzante del secondo atto, all’inconsolabili melanconie del terzo al tragico raggiungimento dell’età adulta nel quarto.
C’è una finezza orchestrale delicatissima, la stessa che quasi 14 anni più tardi Puccini ritroverà nel mondo ruvido, e per certi aspetti non verosimile, de La Fanciulla del West. L’orchestra e il coro sono stati perfettamente all’altezza delle richieste di Conlon.
Naturalmente non basta mettere in valore l’orchestrazione per una buona La Bohème. Le voci e l’occhio hanno la loro parte. Il Teatro dell’Opera schiera due cast per 10 rappresentazioni, Ramòn Vargas e Hibla Gerzmava si alternano con Stefano Secco e Maria Josè Siri nel ruolo degli innamorati e tormentati protagonisti, Rodolfo e Mimì; accanto a loro Vito Priante/Guido Loconsolo (Schaunard), Franco Vassallo/Luca Salsi (Marcello), Marco Spotti/Giovanni Battista Parodi (Colline), Patrizia Ciofi/Ellie Dehn (Musetta).
La sera del 16 giugno, prima rappresentazione, la sorpresa è stata la giovane Hibla Gerzmava; con un bel viso, ma non certo con il fisico di una malata di tisi ha strappato applausi al primo atto e ovazioni nel finale, accompagnate da qualche contestazione dal loggione (non chiaramente indirizzate a lei o alla spettacolo, differente da quello inizialmente annunciato lo scorso autunno). Vargas ha i suoi anni e scansa gli acuti più difficili, ma compensa con un timbro chiaro ed ottimi legato e mezza voce. Vassallo è un Marcello vigoroso e maschio. Ciofi una Musetta piena di brio. Buona gli altri.
Due parole sull’allestimento scenico. Era stata annunciata una ripresa di quello di Zeffirelli, pensato per La Scala 53 anni fa e da allora visto in tutto il mondo anche in quanto acquistato dai teatri d’opera di New York, Vienna, Parigi.
Il costo nel noleggio e della messa in scena, si è rivelato eccessivo. Quindi, il Teatro dell’Opera ha riproposto una squisita produzione di Pierluigi Samaritani, scomparso nel 1994. E’ ripresa da Marco Gardini con i costumi disegnati da Anna Biagiotti per la sartoria del teatro. Da un lato, l’edizione di Samaritani, meno colossale di quella di Zeffirelli, ha più di quest’ultima come chiave interpretativa il senso dell’opera: “la giovinezza ha una stagione sola”, che non ritorna. Dall’altro, la messa in scena è stata concepita per il teatro, il Massimo Bellini di Catania, quello che ha in Italia la migliore acustica, tanto che è qui che la stupenda Dame Joan Sutheland amava cantare e registrare dischi (l’architetto che lo progettò realizzò in seguito quel teatro Colòn di Buenos Aires noto per l’eccellenza delle sue stagioni nella prima metà del Novecento).
Nella produzione pucciniana, La Bohème è un’opera unica, dal colore inconfondibile. Eclettica, tale da fondere mirabilmente il melodramma, il romanticismo tedesco, l’opéra lyrique francese e la romanza-canzone da salotto: è il più fulgido esempio italiano di literaturoper. Anche per questo motivo, è memore di Bizet, di Massenet e di Gounod più che della tradizione italiana. Anche per questo l’allestimento di Samaritani, a cui si deve, tra l’altro , una memorabile Thais merita di ricominciare a girare in Italia ed all’estero.