Un giorno di metà anni settanta, salì su un aereo e da Londra, dov’era nata, andò fino a Los Angeles. Aveva vent’anni, Sylvie Simmons, e in quel modo incosciente realizzò il suo sogno più grande, vivere la sua vita dentro alla musica. Oggi vive a San Francisco ed è una delle più quotate scrittrici rock del mondo, una delle pochissime donne ad aver fatto breccia in un ambiente fortemente maschilista, quello del giornalismo musicale. Il suo ultimo libro, la biografia di Leonard Cohen, “I’m Your Man” (pubblicato anche in Italia da Caissa Italia Editore), è un best-seller mondiale tradotto in oltre dieci lingue. Dopo aver collaborato con le maggiori riviste musicali degli anni 70 e 80, come Cream e Sound, scrive oggi sin dal primo numero per quella che è la miglior rivista musicale del mondo, Mojo, per la quale ha realizzato dozzine di interviste straordinarie, come quei cinque giorni passati insieme a Johnny Cash a casa sua pochi mesi prima che questi morisse.Con lei abbiamo parlato di “quel piccolo sciocco pezzo di musica che si ama così tanto da stare male”.
Nel film di Cameron Crowe, “Almost Famous/Quasi famosi” c’è una frase detta da una delle protagoniste a un musicista: “Non riuscite a capire cosa significhi amare così tanto un piccolo, sciocco pezzo di musica o una band, da starci male”: E’ davvero possibile stare male per una canzone?
Assolutamente, credo profondamente che la musica possa suscitare una passione così forte come l’amore per un uomo, una donna, un bambino, un animale. Sin da quando ero una bambina, ero ossessionata con la musica in tutte le sue forme, ho sempre desiderato una vita nella musica, ma non ero sicura di come poter fare. Deve essere un percorso che segui per conto tuo, la mia passione per la musica batte ogni altro tipo di passione.
Una volta mi hai detto che è sciocco definire una determinata canzone la più bella di tutte, che per te le canzoni non sono una competizione, ma un dono. Che cosa intendevi esattamente?
Nei giornali per cui scrivo devo sempre combattere contro la tendenza di fare delle classifiche, il cosiddetto “best of”. Penso sia una cosa tipicamente maschile, gli uomini preferiscono il lato competitivo delle cose. Quando sei nel campo della musica per così tanto tempo come lo sono io, sei ben consapevole che nuova musica arriva ogni giorno. A volte non riesco a entrare in casa dai pacchi di dischi che mi sono arrivati quando sono via. Così tanti dischi che non ho mai sentito e di cui potrei innamorarmi follemente. Normalmente però la musica che ascolti da giovane, specialmente quando sei nel periodo della pubertà, per la maggior parte delle persone diventa la preferita.
Bruce Springsteen ha detto che le canzoni che scrive lo conoscono meglio di quanto lui conosca le canzoni che ha scritto. Sei d’accordo che le canzoni siano dei piccoli misteri?
E’ verissimo quello che ha detto Bruce. Cinque o sei anni fa ho cominciato seriamente a scrivere canzoni, prima di allora mi limitavo a comporre delle brevi cose e dimenticarle dopo una settimana. E’ vero, le canzoni sanno che cosa esse sono e quando tu le guardi dopo un po’ di tempo capisci che parlavano di una certa persona o di un certo avvenimento. E’ un modo per aprire te stesso, a volte il tuo subconscio o il tuo inconscio viene fuori e si presenta quasi come una specie di sogno a occhi aperti, ma un po’ più focalizzato perché nei sogni le cose succedono in modo assurdo.
Ci potrebbero arrestare se raccontassimo i nostri sogni…
Infatti. Dopo che ho finito di scrivere il mio libro su Leonard Cohen, mi sono messa a scrivere brevi racconti: quando scrivi qualcosa di così lungo come un libro di quel tipo, ti viene voglia di scrivere solo degli haiku… Così mi sono messa a scrivere storie che ci vogliono tre minuti per leggerle e i miei amici mi chiedevano: ma che significa? Be’, erano più o meno tutte uguali, corte e misteriose. Non avevo idea di cosa stessi scrivendo. Bruce ha davvero ragione, scrivere una canzone è un modo per rivelare a te stesso cose che non conoscevi. Tutte le volte che ho intervistato un musicista, questo mi diceva sempre: quando scrivo canzoni, io sono solo un canale attraverso cui loro si esprimono, oppure: è come ascoltare la radio, le canzoni sono nell’aria. E io pensavo: che diavolo dice? Ma era vero. Il vero lavoro è renderle fruibili, farne qualcosa a cui la gente possa relazionarsi e che non sia troppo egocentrico.
Un mistero dunque. D’altro canto una delle canzoni rock più belle si intitola Mystery Train…
Le canzoni sono state la mia introduzione al significato della vita. In parte dovuto a una pura casualità del momento storico in cui vivevo. Sono cresciuta negli anni 60 e tutta la musica sembrava qualcosa di nuovo e in più non c’erano altre distrazioni. Vivevo a Londra a avevamo un vecchio televisore in bianco e nero e allora esistevano solo due canali televisivi. Stavamo tutti insieme in soggiorno ad ascoltare in silenzio la televisione o la radio, e poi arrivarono le radio pirata. Quelle stazioni radio fuori legge che trasmettevano solo musica rock ogni notte, ogni giorno c’era qualcosa di nuovo da ascoltare. Era tutto quello che avevamo e quei tempi erano tempi di cambiamento e turbolenze, anche se in fondo ogni tempo è così.
Anche noi in Italia abbiamo avuto qualcosa di simile, però dieci anni dopo, negli anni 70, quando esplose il fenomeno delle radio private e un intero mondo musicale ci fu svelato.
Già, e la musica ti diceva cosa fare, ti dava le risposte e ti faceva sapere cosa stava succedendo nel mondo e come ti dovevi comportare, alzarti in piedi e combattere le cose cattive e abbracciare quelle buone. Ma oggi è diverso. Oggi ci sono tanti media differenti, tante distrazioni, la gente è divisa e fratturata in tanti segmenti…
Ringraziamo Internet per questo.
Internet doveva unirci tutti ma sembra che abbia ottenuto il risultato opposto e ci ha ridotti in una sorta di club per persona singola dove ci rinchiudiamo. Ma quando ero giovane, la musica era la forza che mi guidava.
Oggi invece sembra che soprattutto i giovani abbiano perso qualunque interesse, se non quello di auto esaltarsi sui social network, e che ci sia una gran solitudine di fondo.
Spero che i giovani possano trovare qualcosa da amare in modo appassionato come la musica è stato per noi. Recentemente ho scritto un capitolo per un libro intitolato “Faith/Fede”. Quando ero una bambina, amavo tantissimo Gesù. Poi con l’arrivo della musica pop, tutti gli uomini cominciarono ad assomigliare a Gesù, sto parlando degli hippie, così ho perso interesse nella religione e la musica è diventata il mio modo di esaminare cosa fosse bene e cosa fosse male, amore e passione. La musica prese il posto della religione nella mia vita. Non me ne ero resa conto fino a quando ho scritto questa cosa per quel libro, ma ho capito di essere ancora una persona religiosa, ma per via della musica.
Il tuo ultimo libro è stato un grande successo mondiale, la biografia di Leonard Cohen: immagino sia stato un lavoro estremamente duro.
Ne avevo il sospetto e una delle ragioni era che avevo letto diversi libri su di lui e mi avevano delusa tutti. Un libro parlava di Cohen come di un musicista che era stato anche un poeta nel suo tempo libero e a cui interessava la religione, un altro libro diceva che era un grande poeta che faceva musica nel tempo libero. Sapevo che invece dovevo mettere insieme tutti e due gli aspetti. Ma poi cominciai a capire che c’erano anche altri aspetti, ad esempio la ricerca spirituale, le donne con quello che significava: il suo bisogno, l’ossessione, la passione, il bisogno di lasciarle. Senza religione e donne non esisterebbe la poesia e la musica di Leonard Cohen. E anche quanto la sua depressione ne fosse parte, come un unico dna.
Cohen ti ha aiutata molto, come hai fatto ad ottenere la sua disponibilità?
Gli scrissi tramite il suo manager, spiegando che avrei scritto il libro con diligenza, cuore e onestà. Gli chiesi soltanto di pensarci bene prima di dire no se avessi chiesto di intervistare qualche sua ex per il libro. Se avesse detto di no, non avrei scritto il libro consultando solo personaggi minori della sua vita. Mi rispose il manager: Leonard ha detto che non ti fermerà in nessun modo. Quando poi capì quanto lavoro ci stavo mettendo dentro, divenne sempre più coinvolto e di aiuto. Mi disse: non lasciare che l’editore cambi qualcosa e mi faccia apparire come un santo. Fu un autentico gentiluomo.
Nella tua carriera anche decine di interviste con le più grandi star della scena rock, ce n’è una in particolare che ti ha mostrato un aspetto diverso del musicista che pensavi di conoscere?
Alcune sono state davvero deludenti. Ho cominciato a farle nel 1976 e non sapevo da che parte cominciare e forse uno dei motivi fu quello. George Harrison è stato il primo dei Beatles che ho potuto intervistare, adoravo i Beatles, ma lui fu davvero antipatico, scortese. Forse perché in quel periodo si faceva di troppa cocaina. Lo avessi intervistato dieci anni dopo, sarebbe andata meglio perché avevo imparato come comportarmi con una persona difficoltosa. Una intervista che invece ricordo molto caramente è quella che feci a Michael Jackson.
Raccontaci.
Nonostante la sua reputazione, si dimostrò una persona molto dolce, sembrava un ragazzino perso. Mi fece l’impressione di essere una persona molto pensierosa e molto infantile allo stesso tempo. Col tempo credo che la sua parte, quella del ragazzino perso, sia andata corrompendosi. Si circondò di persone che non gli dicevano che forse non era una bella idea invitare di notte dei ragazzini a casa anche se le madri di questi ragazzini ce li mandavano. L’ho intervistato tre volte e ogni volta si comportò in modo delizioso, anche se sembrava una persona triste e persa.
Hai anche intervistato Johnny Cash, sei stata l’ultima persona a intervistarlo prima della morte.
Ho passato cinque giorni a casa sua, sei settimane prima che morisse. Ogni giorno parlavamo a lungo. La prima volta che lo avevo conosciuto mi era apparso così severo e rigoroso, ma era “the man in black” e davvero non ti veniva voglia di scherzare con lui. Quest’ultima volta invece fu gentile e divertente, e molto stoico visto le sue condizioni fisiche e il lutto per sua moglie da poco morta. Anche così, potevi scorgere un fuoco bruciare dentro di lui, era come un libro aperto e anche molto vulnerabile.
(Paolo Vites)