“Senza di lui e Giorgio Gaber non avrei mai scritto una canzone come 40 pass, probabilmente”. A parlare così è Davide Van De Sfroos, il cantautore del lago di Como che per certi versi, pur appartenendo a un mondo musicale e culturale molto lontano da quello di Jannacci, ne ha raccolto l’eredità. Non solo per l’uso del dialetto come aveva fatto spesso anche Jannacci, ma per la capacità di raccontare storie vere di vita reale, quotidiana, con la stessa compassione per la fatica del prossimo. “La Milano di Enzo non esiste più” dice “ma ci sono ancora in giro i fantasmi delle persone di cui lui aveva cantato. Mi manca come persona ancor prima di mancarmi come artista: quando arrivava, capivi che era giunto lo zio che fa casino. Era fantastico”.
Anche a Jannacci piaceva cantare molte sue canzoni in dialetto, come fai tu: è una cosa che vi unisce, questa?
Non saprei. Mi è capitato di cantare canzoni in dialetto pugliese mentre lui che era pugliese cantava in dialetto milanese. L’Italia è l’Italia, il luogo dove stare e quando una cosa ti piace, come il dialetto, lo puoi usare.
Si dice in questi giorni, dopo la scomparsa di Enzo Jannacci, che la Milano che cantava lui non esista più. E’ davvero così?
Jannacci e Gaber hanno rappresentato nelle loro canzoni qualcosa che hanno vissuto e vissuto profondamente. Pensiamo a Enzo, a Gaber, a Magni, a Nanni Svampa e anche tanti altri che purtroppo non abbiamo avuto modo di conoscere e che tutt’ora scrivono e cantano cose di ringhiera. Sono stati dei poeti, gli chansonniers di una Milano che c’è stata un tempo ma i cui fantasmi, che abbiano o no “i scarp de tennis”, ci sono ancora e girano in mezzo a noi.
Cosa vuoi dire con questo?
Voglio dire che una mia canzone come 40 pass fa riferimento a quella Milano lì. Senza Jannacci e senza quel poker di artisti che hanno cantato quel mondo apparentemente nebbioso, ma fatto di tante emozioni, questa canzone non ci sarebbe forse neanche stata. Perché tutti veniamo da lì: Jannacci è una persona che, come Gaber, mi manca come persona prima ancora che come artista. Anche Maria Callas ci manca, ma di lei non sappiamo quasi niente se non le storie dei giornali. Invece Jannacci era il ragazzo della ringhiera di fronte che diceva quello che doveva dire altrimenti stava male.
Questi personaggi sapevano cantare la gente di tutti i giorni, magari vista su di un tram, con compassione e affetto, senza arrabbiatura come invece va di moda oggi. Sei d’accordo?
Assolutamente sì. Se pensiamo a un De André, ad esempio, o a quelli citati prima, pensiamo a un cantastorie. E il cantastorie non può che partire da lì per le sue storie. E’ difficile cantare la storia di un imprenditore, anche se pure lui si merita una storia, perché anche lui è partito dalla stessa realtà. Però è chiaro che vivendo la strada, i cosiddetti ultimi, che poi ultimi non sono mai perché invece sono primi in qualcosa, tu hai la possibilità di creare uno spettro credibile di quella che è la società che stai vivendo.
Hai mai cantato canzoni di Jannacci?
Una volta, al premio Tenco. Enzo non era potuto venire a ritirarlo perché non stava bene e per lui venne il figlio Paolo. Cantai Lettera da lontano, una canzone che per me ha significato molto. Mi ricordo che poi erano arrivati anche i ringraziamenti di Enzo.
E vi siete mai incontrati di persona?
Sì, successe in un teatrino milanese tanti anni fa. Lui era ospite e alla fine quando finii di cantare salì sul palco e mi abbracciò. Lo fece in un modo che sembrava uno scambio di consegne, mi disse: ti voglio bene, vai avanti a fare questa cosa che stai facendo.
Hai detto che ti manca più come persona che come artista: in che senso?
Perché era unico. Non aveva la capacità di mentire, se doveva mandare a quel paese qualcuno lo faceva e lo ha fatto anche dal palco. Se stava male non parlava con nessuno per giorni. La persona mi ha sempre trasmesso qualcosa già da quando da bambino lo vedevo arrivare con quegli occhiali da intellettuale. Invece quando apriva la bocca sembrava dicesse: la canzone te la sto cantando però “vada via il cù”. Come ha detto Gianni Mura, nel momento in cui arrivava lui era arrivato il “rompi coglioni”: capivi che arrivava lo zio che fa casino. Era fantastico.
(Paolo Vites)