Ecco l’ultimo cantore spuntato in quella zona di luci e ombre che tra le aree urbane depresse cerca di farsi vita e dove si muove come ragazzo in cerca di un riscatto da storie nate fragili, povere, da famiglie lacerate, deluse quando non addirittura divise.
In quella zona spunta come sorta di germoglio su cemento Darmon King, leccese parte di certa mitologia rap che non rivela neppure su Wikipedia la propria anagrafe, che si lancia nel mondo di quel grido squarciato nato come rivolta, ri-declinato negli anni e cucinato come moda di certo fighettismo anni Ottanta e Novanta, risorto con la lava incandescente degli Eminem e camuffato tra i graffi e gli eccessi a volte para-circensi dei J-Ax e dei Fabri Fibra.
Darmon King – in questo terzo suo lavoro pubblicato ormai nell’estate del 2011 – si propone come fiero tentativo di scavalcamento della pura opposizione al sistema in una rivisitazione di quell’umano “cercatore” che mira le illusioni come primo bersaglio della propria personalissima rivolta in una sorta di disincanto che apre al tutto da scoprire, attento a ciò che si potrebbe rivelare come fatto non previsto.
E in un lavoro che certo annovera a più riprese il battito un po’ convenzionale del genere (“Tripudio rain”, “L.I.F.E.”), ci si ritrova sorpresi dal bel riff arpeggiato e pulsante di “Tempi moderni” e perfino da una concessione più scanzonata in odore di reggae estivo di “Dove sei”, ma non ci si può sottrarre a quel sentore di monito che unisce il principio del lavoro e il suo epilogo.
Da un lato due ballad impostate con buon senso dei tempi drammatici sul binomio strofa rap/morbido e liquoroso chorus femminile. La prima “Angeli” (con una Genie melodica e lacerata alla maniera di una Cristina Scabbia dei Lacuna Coil), l’altra “L’infinito” (“in questa bolgia c’è chi cerca ancora l’infinito”) che nella sua interrogazione resa al meglio dal refrain vocale dolceamaro della conterranea cantante Eneri e dall’incalzare complice del collega Gemello, anticipa un finale che rimescola carte, cartine tornasole e stereotipi ribelli di quel movimento.
In questa “Le storie incompiute” il nostro non ricorre ad appoggi esterni vocali né a comodi richiami tematici. È lui da solo a rincorrere e stanare il sé stesso costruito a tavolino e a sradicarlo da illusioni e sogni codificati in strade maestre del ribellismo.
C’è un quasi solitario dettato di piano melanconico alla maniera d’autore e poi la sua voce che non rappa, ma canta ora come semi-recitativo, ora su un registro grave che richiama certo sperduto e dolente Battisti, e liriche che – insieme al video – sembrano invocare e puntellare il grido antico, ma sempre nuovo dell’imprevisto montaliano quasi come a redimere le amarezze di quel corpusumano disseminato di sogni e illusioni, strappandolo alla sua fragilità e riconducendolo alla portata drammatica di un incognito originale che compia anche l’incompiutezza.
“Se vuoi volare c’è una fermata poco più in là, qua non si vola non c’è mai aria di libertà conti illusioni mai accadute, non sai quante ne ho vissute tra le storie incompiute, tra le storie incompiute…”.