A un certo punto sullo schermo appare Muddy Waters, il leggendario bluesman che per primo elettrificò il blues. E’ una intervista della metà degli anni 60, il giornalista gli chiede se dunque i ragazzi bianchi possono suonare il blues. “Certamente” risponde “hanno imparato a suonare la chitarra con i nostri dischi, ce ne sono di molto bravi”. Il giornalista insiste: suonare ok, ma possono anche cantarlo come lei? Muddy Waters rimane immobile, lo sguardo apparentemente scioccato, l’espressione quasi disgustata, poi erutta: “Cantare come me? Ovvio che no. Che ne sanno i ragazzi bianchi del dolore e della sofferenza?”.
Eric Clapton del dolore e della sofferenza ne ha conosciuto le parti più devastantii, per questo è diventato il più grande chitarrista e cantante di blues bianco e per questo tutti i grandi cantanti di colore, da Waters a B.B. King, ad Aretha Franklin hanno dovuto guardarlo e sentirlo a bocca aperta e accoglierlo fra di loro.
Il film “Life in 12 Bars”, una vita in dodici battute (quelle del blues) rimarrà nei cinema italiani ancora solo per oggi, dopo due giorni di programmazione, evento raro per i film musicali che resistono al cinema di solito un giorno, viaggia su due binari diversi che si intersecano di continuo fino a diventare un binario unico. La storia musicale e artistica di Clapton e il trauma del rifiuto, segnato dall’abbandono della madre quando era appena nato e lasciato ai nonni, che gli faranno credere di essere i suoi genitori naturali. Fino a quando a 9 anni di età la donna con una pessima idea decide di tornare a casa dopo essersi trasferita in Canada.
Dapprima è la rabbia per la scoperta di essere stato ingannato: “Non mi sarei mai più fidato di nessuno” racconta Clapton. Poi il rifiuto: “Adesso resterai per essere mia madre o te ne andrai?” chiede il piccolo Eric alla donna. “Non sono e non sarò mai tua madre” gli risponde lei. E quando lui le chiede se il bambino che ha portato con sé dal Canada è suo fratello, lei infilando il coltello a fondo risponde gelida: “Tu non hai fratelli”. Il rifiuto materno è il trauma più devastante che un bambino possa vivere. Non se ne esce, mai, si può solo imparare a conviverci, ma per arrivare a quel punto bisogna prima pagare un prezzo altissimo, le stazioni di un calvario che Clapton ha visitato tutte: dall’eroina alla cocaina, all’alcol. Fino a gettarsi per terra in ginocchio una notte e urlare a Dio perché gli desse un po’ di pace. E le donne. Tante, tra cui un amore lacerante e impossibile, quello verso la moglie del suo miglior amico, George Harrison, donne in cui cerca l’amore che la madre non gli ha mai dato. Paradossalmente, la liberazione del trauma avviene tramite una ulteriore tragedia, la morte del figlio di 5 anni, avuto con Lory Del Santo, precipitato dal grattacielo di New York dove viveva con la madre. Dopo il funerale, Clapton scorre le migliaia di biglietti di condoglianze ricevute. In mezzo, un cartoncino colorato scritto a mano: “Mi manchi, voglio stare con te”. Glielo ha mandato il figlio dall’Italia una settimana prima, ma è arrivato solo il giorno del funerale. Un segno, dal cielo. E sono lacrime, lacrime in paradiso. Ed è la pace con se stesso, sentirsi finalmente amato.
In mezzo la storia straordinaria di un musicista e di un’epoca storica troppo bella per essere vera. Gli Yardbirds, lasciati perché troppo pop, i Beatles (“Che noi consideravamo dei coglioni”), John Mayall e la gente che scrive sui muri “Clapton is God”, Jimi Hendrix, i Cream. Immagini inedite, in studio con Tom Dowd il leggendario produttore, dal vivo, in concerto, interviste, incisioni con Aretha Franklin, Bob Dylan che guarda Mayall e Clapton a bocca aperta al televisore, Clapton in studio con i Beatles. Peccato che la voce fuori campo per pessima idea del regista in certi casi passi sopra la musica, ad esempio quando parte il più grande assolo di chitarra della storia, quello di Crossroads (peccato anche per i soliti sottotitoli tradotti da gente che non conosce quello di cui parla il film: Clapton dice che insieme alla coca lo spacciatore li obbligava a comprare anche degli “smack”, dosi di eroina, e non degli “snack” come viene tradotto: una dose di coca e una barretta di cioccolato?). Un disco capolavoro, Layla, inciso per cercare di convincere Patty Boyd, la moglie del suo più caro amico, George Harrison, a scappare con lui, senza risultato, un disco che è la più straziante dichiarazione di amore della storia della musica, blues così autentico che trascende il blues stesso, e la presenza di Duane Allman. Da pelle d’oca quando viene mandata Layla lasciando solo le tracce delle due chitarre di Clapton e Allman nel mixer, che duellano verso il paradiso e poi esplode quel ritornello leggendario con tutta la band.
Gli anni 70 della devastazione, la morte dell’amico Hendrix e le immagini di un Clapton perduto, che con gli occhi rossi di pianto senza riuscire a parlare chiede, implora aiuto, come un bambino: “Non ero incazzato perché era morto, ero incazzato perché lui se n’era andato e a mi aveva lasciato qui, da solo, a soffrire”. L’eroina sniffata dalla lama di un coltello come il peggior tossico da marciapiede, gli anni chiuso in casa a bere l’impossibile, i concerti da folle ubriaco in cui se ne va dal palco a metà show insultando gli spettatori.
Alla fine restano quelle lacrime in paradiso e la rinascita di un uomo.
Il film si apre con un video fatto al cellulare da Clapton nel 2015 per annunciare la morte dell’amico B.B. King: “Se non avete conosciuto questa musica, adesso è troppo tardi, è finita” dice e si chiude ancora con B.B. King sul palco del festival “Crossroads” organizzato da anni da Clapton per raccogliere fondi per il centro di disintossicazione per persone indigenti che ha aperto nell’isola di Antigua. B.B. King sul palco, Clapton dietro al mixer e il chitarrista di colore che gli dedica le più affettuose e riconoscenti parole al mondo per aver stracciato ogni barriera razziale, tra tra neri e bianchi, per aver fatto diventare il blues una musica universale.
Cantare il blues? Devi aver sofferto molto per poterlo fare.