Vale la pena uscire di lunedì e fare tardi per vedere un concerto, se in giro c’è un personaggio come Malcolm Holcombe. Classe 1955, il cantautore del North Carolina è uno dei nomi di punta della scena rock folk americana e anche se non può certo vantare cifre da star in quanto a dischi venduti, può comunque godere di una nicchia di fan fedele e appassionata anche dalle nostre parti.
In effetti è lunedì sera ma All’Una e Trentacinque Circa, il bellissimo locale di Cantù che per la seconda volta ha scelto di ospitarlo, si presenta, se non zeppo, discretamente gremito. Il posto è uno dei pochissimi in Italia totalmente devoto alla musica dal vivo, con una programmazione ricchissima che accanto a nomi già affermati della scena nazionale e non, punta a dare spazio ai nuovi talenti. Niente cover band dunque (il vero flagello per chi in Italia voglia calcare le assi di un palcoscenico) ma spazio ad artisti emergenti che hanno cose loro da proporre. Non a caso, stasera apre Federico Cappelletti, che presenta una manciata di pezzi tratti dal suo nuovo disco, in uscita il mese prossimo. Si tratta di un ottimo blues acustico, molto back to the roots, ottimamente cantato ed eseguito. Il 5 aprile sarà di nuovo in scena in veste di headliner, con il suo trio al completo e sarebbe interessante passare a curiosare.
Malcolm Holcombe è uno che nella vita deve averne passate di ogni. La sua biografia racconta di una vita avventurosa, con l’infanzia nel North Carolina, ai piedi dei Monti Appalachi, la morte precoce dei genitori, la fuga a Nashville e una carriera da songwriter iniziata alle soglie dei quarant’anni. Poi il contratto con la Geffen, la discesa nell’alcolismo, la riabilitazione e una serie di dischi meravigliosi che, a partire da “Gamblin’ House” (2007), lo hanno consacrato come uno degli autori più interessanti del panorama folk americano.
Visto di persona, è un personaggio curioso e decisamente alla mano. Quando arrivo sul posto lo scorgo sulla strada, da solo, intento a fumare una sigaretta. Non appena capisce che sto entrando nel locale è lui che mi saluta, si presenta, mi chiede da dove vengo e se ho fatto molta strada per essere lì. Quando gli dico di no, che non ho fatto più di mezz’ora di macchina, si mostra visibilmente sollevato. Poi mi comunica che il 4 agosto uscirà il nuovo album e che quella sera ne avrebbe anticipato un paio di pezzi (“Se me li ricordo,” dice scoppiando a ridere). Un incontro simpatico e piacevole, che me lo conferma come un artista genuino, uno che concepisce un concerto esattamente come una serata tra amici.
In effetti, quando attorno alle 22.30 sale sul palco e imbraccia l’acustica, l’atmosfera è effettivamente molto intima e famigliare. Pubblico attentissimo, caloroso e partecipe. E soprattutto, gente che non ha bisogno di tirare fuori un telefonino per sentirsi parte dell’evento. Difficile poter chiedere di più.
La performance di Holcombe è quanto di più intenso si possa immaginare. Si accompagna con la sola chitarra acustica, che suona alternando lo stile folk a quello blues, ora accarezzando le corde, ora percuotendole quasi con rabbia, impreziosendo spesso i brani con bellissimi passaggi strumentali. Il tutto arricchito da una voce splendida, roca e tremendamente espressiva, una via di mezzo tra Bob Dylan e Tom Waits.
Si parte con “Mountains of Home” e “Where I don’t Belong”, entrambe dal penultimo “To Drink the Rain”, ed è bellissimo vederlo piegarsi sulla chitarra, dondolarsi avanti e indietro sulla sedia, ora avvicinandosi al microfono, ora allontanandosene, a volte sussurrando le parole, a volte sputandole letteralmente fuori. Un concerto tutto da vedere, non solo da sentire, cosa certamente inusuale, visto che siamo in una dimensione acustica.
I brani si susseguono uno dopo l’altro, a volte senza neppure attendere l’applauso del pubblico. Ogni tanto invece si ferma e, sorseggiando una bottiglia di succo d’ananas, racconta aneddoti divertenti come quando, introducendo “Whenever I Pray”, ricorda una vacanza sulle Alpi, dove si è imbattuto in una chiesa che aveva campane vere, e non digitalizzate come quelle della sua città natale.
Nell’arco di un’ora e mezza vengono suonati brani tratti un po’ da tutti e nove i dischi da lui pubblicati, con incursioni anche nelle cose più remote, come una toccante versione di “Who Carried You”, dal disco d’esordio “A Hundred Lies”.
Difficile citare questo o quel brano ma sicuramente, tra i miei personali highlight ci sono stati “Trail of Money”, “In Your Mercy” (che su disco ha inciso assieme a Emmylou Harris), “For the Mission Baby” e soprattutto la meravigliosa “The Door”, con la sua struggente domanda di redenzione universale (“Dolce sorella mia, dammi un po’ d’acqua, ho sete e le mie gambe non possono muoversi. O Padre dei Padri, nostra madre sta diventando vecchia e debole. Dolce sorella mia, dammi un po’ d’acqua”).
Nel finale arriva anche la divertente “Back to Hell in a Greyhound”, accompagnata da un buffo aneddoto su un suo viaggio per il paese, che però non sono riuscito ad intendere appieno.
“For the Love of The Child” è probabilmente un pezzo nuovo che, se così fosse effettivamente, conferma che il nuovo disco non si discosterà molto da quanto fatto ultimamente e possiederà freschezza e qualità a sufficienza.
Divertente anche il siparietto finale, con Malcolm che dice “ci vediamo tra un attimo” ed esce dal locale, probabilmente con l’intenzione di fumarsi una sigaretta. Viene però richiamato immediatamente indietro dagli applausi del pubblico e si concede per un altro paio di pezzi, finendo con la vecchissima “Dressed in White”.
Visibilmente compiaciuto, ringrazia tutti con l’aria di chi si sente davvero a casa sua e scende definitivamente dal palco.
Serate come questa hanno il potere di spazzare via in un attimo tutte le lamentele di chi dice che non ci sono più gli artisti di una volta, che la buona musica e morta e cose così.
Se ci sarà un nuovo album ad agosto, può darsi che avremo di nuovo Malcolm Holcombe tra noi in tempi brevi.