Diversamente da quello a cui ci avevano abituato negli ultimi anni i Sigur Ros, a distanza di poco più di un anno,
Escono con il loro settimo lavoro da studio. Per il precedente “Valtari” c’erano voluti quattro anni, passati attraverso i vari progetti solisti e i tentennamenti che avevano fatto presagire il peggio. L’abbandono di Kjartan Sveinsson, tastierista e storica mente che insieme a Jonsi avevane forgiato il sound diventato marchio di fabbrica dell’ex-quartetto, le speranze erano ridotte ad un lumicino. A dispetto di quelli che poi sono state solo illazioni ora ci ritroviamo con tra le mani “Kveikur”. Il significato molteplice (stoppino della candela / miccia di una bomba) può essere letto come “nuovo inizio” da parte dei tre superstiti.
Il cambio di rotta si sente e dove “Valtari” richiamava i primi lavori “Kveikur” va oltre, ridefinendo nuovi e coraggiosi confini al sound della band. Le caratteristiche sono sempre le stesse: chitarre riverberate, epicità che innalza sempre la soglia emotiva di ogni singolo brano e la conduzione dalla voce di cristallo di Jonsi.
Quello che esce prevalentemente da questo disco è l’attenzione alla melodia che volendola generalizzare, la si potrebbe definire pop, termine però da contestualizzare. Molti brani sono orecchiabili fin dal primo ascolto e spesso sembra quasi sparito tutto quello che poteva apparire ‘ambient’ . Il confronto con il lavoro precedente è straordinario, sembra un’altra band. Ma forse lo è.
I brani, ancora in islandese, partono dal primo singolo “Brennestein”, già sentita anche live nell’ultimo passaggio in Italia che traccia subito i confini del nuovo corso: molta elettronica aiuta a sovrapporre la voce di Jonsi, distorta e amplificata gli altri strumenti sono a contorno della tempesta sonora in corso. Una sognante “Hrafntinna” lascia il posto al brano più accattivante del disco: Isjaiki (iceberg). Il suono è un rimando ai fasti pop della celebre “Hoppipolla”. La melodia rimane in mente immediatamente e si viene trasportati dalla voce di Jonsi leggeri nell’aria, sembra di volare sopra gli iceberg seguendo le gelide correnti del nord e quando i riff distorti irrompono di tanto in tanto ci fanno planare sul tappeto di xilofono finale che ci riporta a terra. L’elettronica torna padrona in “Yfirbord”, un episodio quasi secondario rispetto al brano precedente. Le seguenti “Stormur” e la title track “Kveikur” sono evocative fin dall’inizio e trasportano in un intricato mondo sonoro fatto di riverberi e suoni sincopati che rapiscono il cuore come l’esplosione di un geyser che sputa energia per pochi minuti per poi placarsi e tornare a ribollire sottoterra.
“Rafstaumur” attacca veloce e riesce ad aprirsi un deciso varco nel muro del suono che finora si è limitato a fare da sfondo ai brani. Vero post-rock deciso, suonato veramente e senza mezzi termini. Ancora “Bláþráður” propone un power trio diretto e immediato, solo un accenno di tranquillità a fine pezzo per fare spazio alla finale “Var” che definitivamente farà emozionare per la sua semplice ed emozionante melodia , un pò come la più nota “Sæglópur”. Erano diversi anni che i Sigur Ros non riuscivano a produrre un brano così toccante e semplice.
L’incontro tra la necessità pratica di avere un elemento in meno e quindi proporsi in modo più semplice e il voler continuare ad espandere i confini del post-rock ha prodotto un album dai diversi aspetti: epico, emozionante, noise e che riesce ad essere originale e fruibile anche da chi non conosce la band. Le nuove dinamiche del gruppo hanno portato ad allargare lo spettro, già ampio, dei colori a loro disposizione. Quindi godiamoci l’arcobaleno, cosa che in Islanda non manca mai.