La Bohème di Giacomo Puccini è una delle opere più eseguite al mondo. E anche una delle più amate. Non solo in Europa (ricordo magnifiche edizioni sia a Parigi sia a Budapest) ma in tutto il mondo (ne vidi una messa in scena a Nairobi e una a Seoul negli Anni Settanta). Nella produzione pucciniana, La Bohème è un’opera unica, dal colore inconfondibile. Eclettica, tale da fondere mirabilmente il melodramma, il romanticismo tedesco, l’opéra lyrique francese e la romanza-canzone da salotto: è il più fulgido esempio italiano di literaturoper. Anche per questo motivo, è memore di Bizet, di Massenet e di Gounod più che della tradizione italiana.
La Bohème è sempre contemporanea. Lo era all’epoca di Henry Murger che la aveva ambientata nella “sua” Parigi del “suo” tempo (1840-50). Lo era quando la compose Giacomo Puccini, le cui Parigi da cartolina è, in effetti, la Milano degli anni della Scapigliatura (ultima decade dell’Ottocento). Nell’ultimo capitolo delle Scene di una vita da bohème di Murger (il romanzo a cui si sono ispirati sia Leoncavallo sia Puccini) è passato un anno dalla morte di Mimì. Tanto il poeta Rodolfo quanto il pittore Marcello (nonché il musicista Colline e il filosofo Schaunard) hanno fatto fortuna nelle loro rispettive professioni. Si sono pure imborghesiti. Marcello ha appena passato una notte con Musette – ma è stata “una triste notte non era più lo stesso –niente affatto!”. “La gioventù – conclude con una punta d’amarezza il pittore – ha una stagione sola”. Il nocciolo duro dell’opera non è la Parigi immaginaria 1840-50 ma l’ultima fase della giovinezza, quella della spensieratezza portata bruscamente a termine dalla morte di Mimi. Tema contemporaneo come mai, specialmente oggi in un’Italia con alta disoccupazione “intellettuale” e dei NEET (i giovani non occupati e neanche in istruzione o in formazione), come possono esserlo un poeta con velleità giornalistiche, un pittore, un laureato in filosofia ed un musicista alle prime armi. Alex Ollé della Fura dels Baus (ed i suoi colleghi Alfons Flores – scene – e Lluc Castells –scene) hanno colto nel giusto ambientando la parabola della fine della gioventù in un quartiere di periferia.
Già altri hanno ambientato ai tempi d’oggi il lavoro di Puccini sulla “stagione che non ritorna”, ad esempio Damiano Michieletto in una produzione che ha avuto molto successo al festival di Salisburgo 2012 ma che poneva i quattro bohémien in un mondo in cui ci si buca (quindi, anche se si è giovani NEET, si è persa l’innocenza) e la protagonista era la già quarantenne (un un po’ giunonica) Anna Netrebko, affiancata da Piotr Beczalia).
Molto meglio “azzeccata”, e molto più pucciniana, la banlieue di grandi grattacieli popolari già in pessimo stato pochi anni dopo la loro costruzione, di piccoli appartamenti fatiscenti, di locali leggermente equivoci creata da quei diavolacci de la Fura dels Baus. Mi dicono che alla prima alcuni spettatori hanno protestato, in quanto nostalgici della celebre edizione zeffirelliana pensata per La Scala 60 anni fa e da allora visto in tutto il mondo anche in quanto acquistato dai teatri d’opera di New York, Vienna, Parigi. Un’edizione, senza dubbio, bellissima ma se si vuole portare i giovani ai teatri d’opera, oggi è forse meglio far sì che sentano lo spettacolo più vicino a loro ed ai loro problemi.
Ci si è correttamente affidati ad un cast giovane. Il 23 giugno, quando io ho assistito allo spettacolo la concertazione e direzione d’orchestra (spesso affidata ad anziani routinier) era del giovane Pietro Rizzo il quale non ha dimenticato che La bohème è un’opera in cui l’orchestra è protagonista: intrecciando una quindicina di motivi tematici, introducendo dissonanze a quelle che dieci anni dopo avrebbero fatto il successo di Richard Strauss, si creano le atmosfere per palpare la gioventù come la sola stagione che non ritorna, per passare dai momenti lievi (quasi sognatori) del primo atto al ritmo incalzante ed alle terzine del secondo atto, all’inconsolabili melanconie del terzo al tragico raggiungimento dell’età adulta nel quarto. Grazie all’eccellente orchestra del Teatro dell’Opera di Roma, Pietro Rizzo ha messo in risalto questa raffinata orchestrazione, che precorre la grande scrittura (soprattutto dell’Europa centrale e del mondo austro-tedesco.
La Bohème è generalmente considerata opera di “voci”; arie, ariosi, momenti polifonici, un grande concertato al termine del secondo quadro. Un cast giovane e di livello. Su tutti spicca il Rodolfo del generoso Giorgio Berrugi. Mimi è la romena Anita Hartig, brava nel canto ma ancora acerba nella dizione in italiano. Musetta è una perfetta Olga Kulchynsksa, Marcello un articolato Massimo Cavalletti, Colline e Scaunard Antonio di Matteo e Simone Del Savio. Matteo Peirone interpetra i due brevi ruoli di Benoit ed Alcindoro. Efficace il coro guidato da Roberto Gabbiani.