Se ci fosse qui ancora lui, ci direbbe: “Dai, dai, non mettetela giù tanto dura, cosa volete che sia un anniversario”. Lui la morte, nelle sue canzoni, mai l’ha celebrata, sempre e solo pudicamente accennata, ma con precise indelebili antiretoriche epigrafi. Il muratore caduto dall’impalcatura “è morto contromano disturbando il traffico”. Il barbone in scarpe da tennis “l’han trovàa sotta a on mucc de cartòn, gh’han guardaa, el pareva nessun, l’han toccaa e ‘l pareva che ‘l dormiva”. Il dritto della festa in una casa popolare “diceva di volere l’amore ma finì contro a un muro e la vita finì”. Del delinquentello in motorino ammazzato a pistolettate si fa notare, al maresciallo, “che un morto di soli 13 anni è proprio da vedere, perché la gente sai magari fa anche finta però le cose è meglio fargliele sapere”. Dell’immaginario padre soldato con l’ordine di non sparare sappiamo che è stato ucciso perché la moglie lo vide bianco senza più respirare, avvisata con un telegramma: medaglia d’oro per l’altolà. Il moroso condotto al riconoscimento della giovane prostituta la vede “smorta de fa compassion ai sass sotta a on brutt lenzoeu bianch…” ma al commissario dice che “l’è no vera, che te seret minga ti”. Una lacrima è concessa in Sei minuti all’alba: “piangere d’accordo perché m’han da fucilar”. Il clandestino il cui corpo dopo lunghe disperate bracciate galleggia (al largo di Arma di Taggia) “è nuotato oltre la vita”. Per non dire dei funerali: Vengo anch’io? No tu no. Agli amici più stretti che ha perso, Jannacci ha dedicato una riga, una sola, di verità straziante, perentoria, capace di stroncare prima del nascere buonismi di maniera e adulatori postumi: “Al mio amico Tenco non han fatto vedere nemmeno i limoni”. “Al mio amico Gaber non han perdonato di aver fatto canzoni”. Solo a Beppe Viola è dedicata una canzone intera, L’amico, ma per ammonire: “Non beveteci sopra, non voleva salutare nessuno”.
Io credo che nei 12 mesi successivi a quel venerdì santo, 29 marzo 2013, con la memoria di Enzo non la si sia messa giù troppo dura. Eventi, ricordi, celebrazioni, intitolazioni, spettacoli, gente che ripropone le sue canzoni (ultima, ancora in corso, la serie di iniziative promosse dal Comune di Milano www.ciaoenzo.it), persino 50 illustrazioni dei personaggi delle sue canzoni fatte da grandi disegnatori: le iniziative sono state millanta (e millanta, e menomale, ne stanno per venire) ma mi sembra sempre caratterizzate da un sobrio rispetto per il modo di essere, geniale e anti-finzione, del maestro. Mi vengono tre parole: affezione, riconoscimento, scoperta.
Affezione – Colpisce che ci siano così tante persone che al medico artista vogliono bene. Si è vista un’affezione vera, da parte dei collaboratori a lui più vicini come di gente qualsiasi, che sorprende (e che spero sia un po’ di consolazione per la signora Giuliana).
Il segreto probabilmente sta in quello che racconta Enzo Limardi, e cioè che il maestro cercava, anche nei provini al tempo di quel locale-scuola-laboratorio di cabaret che si chiamava Il Bolgia Umana, persone che umanamente gli corrispondessero per lavorare insieme da amici. Non gli interessava stabilire chi fosse tecnicamente il più bravo.
Ma anche in maniera più indiretta, attraverso le canzoni, i suoi temi, i suoi personaggi, le sue atmosfere si è generata in molti una corrispondenza profonda e affettiva di qualità assai rara. Già, perché Enzo Jannacci ci ha fatto conoscere persone reali, individui singoli e concreti, pieni di bisogno e anche talvolta goffi nella loro non-riuscita sociale e nella loro netta marginalità, con simpatia, nel senso di com-passione. Avesse cantato, che so?, personaggi simboli di un’idea, categorie sociali (tipo “gli ultimi”), avrebbe potuto generare consensi o dissensi astratti, non corrispondenze affettive.
Posso dirlo anche per personale esperienza. Sono cresciuto sin da piccolo in una grande azienda passando ore e giocando anche con gli operai: ho condiviso tante cose con le Vincenzine, con quelli che tagliavano le lamiere e per amore ci avrebbero fatto anche dei fiori, quelli che andavano in fabbrica con la bici e la schiscietta nella cartella appesa alla canna (non c’erano le mense), e quelli che venivano giù dai treni alla mattina presto mezzo indormenti, il Giulio e il Penati e il Signurel, validi muratori, che uscivano a fine turno senza cambiarsi gli abiti da lavoro e andavano a costruirsi, fin che c’era luce, la loro casetta o quella di altri, per pochi soldi. L’umano che è parte di me si riconosceva nell’umano di queste persone concrete e minime, non – per dire − nella classe proletaria del massimalismo astratto.
Riconoscimento − Sì, è tempo di comprendere che Jannacci è davvero un grande, e che grande è la sua eredità artistica. Questa eredità merita di essere tenuta viva nella memoria e nella trasmissione alle giovani generazioni. In un mondo di rapporti sempre più virtuali e astratti, e perciò tendenzialmente violenti e disumani, con gli altri e con la realtà, l’universo di Jannacci è una introduzione alla realtà concreta e minima dell’umano, con la sua miseria e la sua grandezza, la sua bellezza, la sua poesia, la sua ferita e il suo grido.
Va bene la playstation i cartoni animati, va bene Peppa Pig, ma qualche volta bisogna sentire in mano che concentrato di vita, calore ed energia è un maialino. La cosa straordinaria di Jannacci è che ha fatto questo ininterrottamente per 50 anni, cercando l’umano per attaccarvisi nelle situazioni sociali e storiche più diverse. Ovviamente sempre controcorrente.
Basta un esempio per ogni decennio, limitandoci alle canzoni più famose. Anni 60, boom economico, ottimismo, piena occupazione, una buona posizione e un buon stipendio per tutti. Ma quel mè amis là, che El portava i scarp del tennis… Anni 70, le lotte di fabbrica e di piazza, la triplice sindacale arrembante, gli anni di piombo. E Vincenzina davanti alla fabbrica, col foulard che è già giù di moda, Vincenzina che vuol bene alla fabbrica, e non sa che la vita giù in fabbrica non c’è e se c’è com’è. In pieno ottimismo reaganiano anni 80 (per stare alla definizione di D’Agostino-Arbore) Sont s’cioppaa, sono scoppiato, hai presente un canotto mordicchiato da un doberman, ecco, fatti conto… c’ho più mani per chiedere, c’ho più piedi per spingere. Altro che il riflusso. E nei primi anni 90, tutti contenti (quasi tutti) perché caduto il Muro si va via di mercato alla grande… “Quando il socialismo muore, quando l’alfabeto muore… non fare un figlio, potrebbe chiederti da dove viene il dolore”.
E quando verso il virare del millennio tira forte il buonismo, ecco un Se me lo dicevi prima che inchioda il cinismo dei garantiti sbattendogli in faccia l’implorazione degli inermi. E infine, anni 2000, il magistrale contropiede del Sottotenente: uno che poteva essere un perdente, certo non un potente, di nessuno parente, che a un certo punto aprì il suo sacchetto di plastica bianca (molto aderente) perché ne venissero fuori le arance per far contenta la gente perché ne venisse fuori magari venisse fuori un bel suono che lo potessero capire un po’ tutti sembrava fatto di niente però era un suono come di pace, che unisce tutta la povera gente. È la carezza del Nazareno, che difende il nostro desiderio. “Pochi capiscono il significato delle canzoni, come pochi hanno capito che il ‘sottotenente’, da me citato in una canzone, è in realtà Gesù Cristo” (da un intervista a FM56, 2003).
Scoperta − A volte si dice “l’altro Jannacci”, alludendo a un qualche aspetto non noto o non divulgato, tipo il lato B della luna. Capisco che la comunicazione convenzionale dominante ingigantisce spesso gli aspetti più superficiali e banali, e quindi lascia nel cono d’ombra molto. Tuttavia io non credo che ci sia un “altro Jannacci” da conoscere. Non c’è uno Jannacci serio a fronte di uno ridanciano. Non c’è uno Jannacci religioso e fronte di uno mangiapreti. Non c’è uno Jannacci irriverente a fronte di uno delicato e poetico. Jannacci è uno, profondamente uno in tutte le forme della sua espressività. Egli non rinchiude il racconto tra un punto di partenza e un punto di arrivo definiti e bloccati. Piuttosto è come se seguisse e accompagnasse percorsi, lasciandoli aperti. Così ogni volta che si riascolta una sua canzone, con un minimo di attenzione e di coinvolgimento, si scoprono sempre nuovi orizzonti e più profonde dimensioni. Testi ridanciani rivelano, così, vene drammatiche, e così via.
Ci sarebbe da fare mille esempi. Ne basti uno. Ho visto un re. Sembra un giocone ah beh, sì beh, conta ti, cunti mi… Si presta anche a giochi di polifonia popolare con cori alterni, subalterni e multipli. Piangeva il re, e anche il cavallo, e anche il vescovo, e il sacrista, e il ricco, e anche il vino. Tutti col diritto di caragnare, salvo il più povero e derubato di tutti, il villico cui tocca ridere perché “piangere fa male al re”. Qui la narrazione scherzosa ti mette sotto gli occhi la sua seria drammaticità: l’uomo che è triste perché il suo cuore è pieno di una mancanza che non può colmare, ecco che cosa fa male al re. Questo il potere non può tollerare.
Don Giussani era uomo così attento che “scoprì” subito questo significato profondo dentro l’esilarante cazzeggio jannaccico. Naturalmente fu che io sappia l’unico. Perché per fare certe cose non basta avere orecchio, ci vuole una genialità umana. E, come racconta Savorana nella sua Vita di don Giussani (p. 730-731), egli lo fece notare quel significato ai ragazzi dell’università, sorprendendoli non poco, quando fece cantare come introduzione nel ritiro di inizio anno non un inno di chiesa ma proprio Ho visto un re, per commentarlo alla maniera, cioè con la genialità che s’è detta.