Arrivi a un punto nella vita in cui le pacche sulle spalle, il “dai andiamo a farci una birra” non bastano più. In realtà non tutti ci arrivano, c’è a chi va bene anche così. Chi è impegnato un po’ più seriamente con la propria di vita però di certa compagnoneria si stufa, prima o poi. Semplicemente non basta più. “Quante cose son cambiate nella vita”, dice Vasco Rossi nel brano inedito, Quante volte, che ha inciso per la colonna sonora del film documentario su di lui presentato recentemente a Venezia.
Vasco Rossi in qualche modo resta legato per sempre a un certo immaginario giornalistico, quello dello sballato che frequentava il Roxy Bar anche se con gli anni è cambiato. Lui stesso in realtà ha fatto poco per distaccarsi da questo immaginario, prigioniero come succede a quasi tutte le super star del giochetto del ruolo che veste, magari cedendo anche ai cosiddetti “yesmen”, quelli che non osano mai contraddire la star e che gli curano la carriera e l’immagine passo dopo passo e a cui chi ha un po’ di debolezza finisce per affidarsi totalmente.
Vasco non è certamente Elvis, morto perché stritolato nei meccanismi commerciali che il Colonello Parker aveva costruito intorno a lui, quelli di una gallina dalle uova d’oro da spremere fino alla morte, tanto anche dopo morto avrebbe reso lo stesso, anzi di più. Eppure l’idea del prigioniero di se stesso sono quelle a cui è più facile collegare l’artista emiliano.
Le immagini, tempo fa quando si era ammalato di un misterioso virus e faceva la spola da casa sua a qualche clinica privata, intercettato alle finestre come una specie di fantasma, i suoi clippini demenziali diffusi da lui stesso su facebook, aumentavano l’impressione di un uomo solo sul punto di crollare.
Immagini viste da lontano ovviamente, di un cronista che l’unico contattato ravvicinato con Vasco l’ebbe una volta sola. Chiesi una intervista con lui, mi dissero di mandargli le domande scritte. Un modo tristemente impersonale, che già allora mi fece scattare l’immagine di un uomo in gabbia. Mi arrivarono le risposte via fax (non c’era ancora Internet) scritte a mano da lui, sembravano le risposte di un bambino anche per il modo di esprimersi. Mi fece tenerezza, avevo percepito che dietro la super star c’era invece un bambino, anche un po’ solo.
“Quante volte ho pensato è finita” dice nella nuova canzone, e siamo certi che è sincero. Echeggiando il Guccini di Canzone per Piero (“E poi ogni giorno mi torno a svegliare, e resto incredulo non vorrei crederci”) dice “Poi mi risvegliavo il lunedì, quante volte ho pensato nella vita voglio fare quello che mi va, poi le cose mi sfuggivan tra le dita e arrivava la realtà”.
Per la prima volta forse Vasco Rossi sembra aver abbandonato quel bambino fuggendo anche da quella gabbia dorata. La realtà dello svegliarsi ogni mattina e restare incredulo perché non sei tu che decidi di svegliarti ancora un’altra volta, è una bella botta. La realtà, un qualcosa di più grande di quello che pensiamo, della nostra voglia adolescenziale di pensare “di fare quello che mi va”. Arriva sempre, la realtà.
Anche il video che accompagna la canzone è disturbante. Non è più il Vasco Rossi spaccone di sempre. Un primissimo piano, il cranio rasato a zero, uno spunto di barbetta. Un primo piano fisso. Sembra un po’ Peter Gabriel e un po’ il colonnello Kurtz quello di Apocalyspe now interpretato da Marlon Brando, quello che discuteva con se stesso dell’orrore quotidiano della vita. Due mani femminili lo accarezzano e sembrano consolarlo. Sembrabo. Anche le musiche che accompagnano la canzone sono qualcosa di inedito per lui. Non più quel rock un po’ banale, scopiazzatura di terza mano da tanti modelli internazionali. E’ un suono asciutto, ma incalzante, diretto e onesto. Rock vero, questa volta, quello che non ha bisogno di “effetti speciali”.
Anche se adesso è meglio di prima, non vuole più vivere, dice ancora. Constatazione drammatica, non c’è bisogno di spiegarla. Ecco che tornano alla mente le immagini dell’uomo solo dietro i vetri delle finestre della clinica che si filma in clippini deliranti. E arriva il ritornello, violento, urlato insieme alle immagini dun pallone da calcio che esplode con violenza, che collega la constatazione drammatica “non voglio più vivere” a una intuizione formidabile: “Io non voglio più vivere solo per fare compagnia, io non voglio più ridere non mi diverto più ed è colpa mia”. Non bastano più le pacche sulle spalle e la gente che ti dice ma sì Vasco che ti frega sei una star, anzi sei la star, facciamoci una birra che poi passa. “Non ho voglia di credere che domani sarà diverso e poi… si vedrà?” si chiede.
La vita o succede adesso o è una maledizione. La vita è di più di vivere solo per farsi compagnia. C’è un modo per superare questo, è una compagnia, ma vera, non adulatrice e falsa, siano pure i fan che ti urlano da sotto al palco “sei il più grande”.
“Quante volte ho pensato nella vita posso fare anche senza di te poi mi risvegliavo tutto sudato senza capire perché”.
Chi sia quel tu a cui si rivolge noi non lo sappiamo. Ma c’è sempre un tu a cui rivolgersi quando si comincia a vivere davvero perché da soli o in una compagnia superficiale la vita ci “sfugge tra le dita”. Restano solo le pacche sulle spalle e dai, facciamoci una birra. Quante volte ancora, Komandante?