Il 16 marzo 2013 il corpo di Jason Molina viene trovato senza vita in un appartamento di Bloomington, città dell’Indiana, l’anonimo Midwest americano. Le complicanze fatali di una malattia legata all’abuso di alcolici se lo sono portato via, all’età di soli 39 anni. L’alcol, in realtà, è solamente un epifenomeno del male del secolo, quel black dog – la sindrome depressiva – che attanaglia senza pietà molte, forse troppe, persone. Mentre mi accingo a scrivere queste righe, che vogliono parlare di musica, il pensiero non può fare a meno di andare alle vittime di un disastro aereo, tragico figlio della stessa malattia e al grido di un perché, che resta domanda senza risposta, sospesa a mezz’aria nel vento.
La musica di Jason Molina e della sua creatura – i Songs: Ohia poi mutati in The Magnolia Electric Co. – è ancora viva e presente tra noi, intatta in tutto il suo splendore nelle numerosissime registrazioni che egli ci ha lasciato. Musica che è sempre sfuggita ad ogni tentativo di classificazione. Alternative country, americana, country-soul, accelerazioni rock degne del miglior Neil Young, ogni definizione finisce per essere inesorabilmente stretta e insoddisfacente per descrivere canzoni che sembrano trovare sempre una modalità diversa e affascinante per descrivere lo stesso anelito: l’esigenza di senso sulle cose e sull’esistenza.
Nello struggente orizzonte delle note e dei testi di Jason, la sua voce melodiosa descrive un cielo sempre ostinatamente vuoto, eppure la sua musica esprime una dolcezza che attrae in maniera misteriosa, come se al termine di ogni rettilineo della strada la realtà non fosse mai quella di un sole destinato a oscurarsi alla fine del tramonto, bensì l’alba di un destino che si svela di continuo, portando con sé tutto il suo bagaglio di dubbi e desideri. Se è vero che le canzoni di Molina sono ricolme di fantasmi, paure e incertezze, amore e peccato, è anche vero che tra le righe di ogni verso non emerge un senso di ineluttabile condanna, ma di rispetto e passione nei confronti della vita.
Nato a cresciuto a Lorain, nell’Ohio, in una periferia cittadina famosa solo per la fabbrica della Ford e le acciaierie di Youngstown, Molina ebbe a dire che essa fu il circondario dove egli imparò ad incamminarsi fuori dalla propria tristezza. “Lorain era un luogo di acqua e uragani, di rossi tramonti e di luce splendente. Imparai a scrivere musica là fuori, perché là tutto era immenso e improvviso. Capii che la miseria non è qualcosa da catturare e da far prigioniera, ma da cui imparare”.
A distanza di due anni esatti dalla morte di Molina, esce un tributo a lui dedicato, cinque canzoni eseguite magistralmente da un artista irlandese. “Chi altri se non Glen?”, è stato detto. Chi altri se non Glen Hansard, il musicista conosciuto dal grande pubblico nel 2006 con il film Once, poteva appropriarsi di queste canzoni senza abusarne, rispettandone pienezza e splendore, reinterpretandole delicatamente fino a farle proprie, sino ad entrare dentro tutta la loro tenerezza e fragilità? “It Was A Triumph We Once Proposed” è il titolo dell’EP, solo cinque brani, dedicati all’ “amico e collega Jason Molina”, pescate dentro il vasto repertorio di quest’artista, la cui proverbiale prolificità ha prodotto album, singoli e collaborazioni in quantità; una musica, come ben descrivono le note di copertine del disco, in cerca d’ossigeno, “organo esterno di una pressione interna”, quella dei sentimenti e delle passioni, che non possono restare confinate all’interno del corpo e dell’anima, ma devono uscire fuori a respirare. “Jason Molina era un eroe e un amico – ha dichiarato Hansard – scrissi a lui la mia prima lettera da semplice fan e ho sempre amato la sua musica. Cantare queste canzoni è il solo modo di dare un senso alla sua perdita”.
I destini di Jason e Glen si erano incrociati tempo addietro, nel 2000 – Hansard allora leader del quasi sconosciuto gruppo irlandese The Frames – dando frutto allo split Fade Street/A Caution To The Birds. Poi ognuno aveva continuato a percorrere il suo cammino, ma ne era rimasta un’amicizia di lunga strada. “La musica – dice ancora Glen – ha di per sé una sua natura, strana e trascendente. Quando è profonda si spinge oltre i versi, la melodia, gli strumenti, il modo in cui viene incisa, per tramutarsi in sentimento. E quando questo sentimento coinvolge il tuo cuore, allora non domandarti se sei intonato, se stai cantando nel modo giusto, ma chiediti “ci credi?”. Il miglior complimento che puoi fare ad un musicista quando suona è dirgli : “credo in te quando canti le tue canzoni”, ed io credo ad ogni singola parola che Jason ha lasciato; così ciò che ho cercato di fare è stato semplicemente cantare la sua canzone nel miglior modo che potessi, in memoria di questo”.
Il disco è inciso insieme a musicisti anch’essi amici di Molina, che registrarono in studio e suonarono con lui in tour. La prima canzone, Being In Love, è tratta da quella piccola gemma che è The Lioness, disco registrato in Scozia nel 2000 con Alasdair Roberts e gli Arab Strats, e che qui viene resa in maniera meno rarefatta dell’originale, ma non per questo meno densa di drammaticità, compreso quel verso finale, che sembra aprire a nuove ed insperate energie: “I’m sure we’ll find new things to burn/Cause we are proof that the heart is a risky fuel to burn”, “sono sicuro che troveremo cose nuove da bruciare / Perché siamo la prova che il cuore è un carburante rischioso bruciare.
Being In Love è la canzone che Glen Hansard ha anche scelto recentemente di eseguire al David Letterman Show, popolare show televisivo presente sugli schermi americani fin dal 1982, suonando insieme ai membri originali dei Songs: Ohia. Seguono, sul disco, due brani – Hold On Magnolia e Farewell Transmission – pescati da The Magnolia Electric Co., suonati con fedeltà e intensità pari a quell’album del 2003, uno dei capolavori di Molina, e che forse rappresenta l’episodio più classicamente rock ed elettrico della sua produzione.
Il disco si chiude con due canzoni – la brillante Vanquisher e White Sulfur, intima ed acustica, tratte dal disco d’esordio di Jason, Songs: Ohia, e rese con sonorità più somiglianti ai tratti somatici di Hansard, ma capaci di mantenere tutta la malinconia di quello che, nella discografia di Molina, viene chiamato The Black Album, e non solo per il colore della copertina. Poco più di venticinque minuti di musica in tutto, decisamente troppo pochi per addentrarsi in territori affascinanti e misteriosi, luoghi dove l’ombra si alterna alla luce, in un vortice di sensazioni dove lo spazio chiede al tempo di dilatarsi senza fine. Allora It Was Triumph We Once Proposed, titolo tratto dal primo verso di White Sulfur, può essere semplicemente la chiave d’accesso a qualcosa di più grande.
Ascoltare queste canzoni per bussare ad una porta che attende solo di essere aperta. Tutto il patrimonio di dischi e sensazioni che Jason Molina ha lasciato a tutti noi. Musica e tristezza che vanno in giro abbracciate insieme e che attendono di essere accolte per non essere lasciate sole. Figlie di quella malinconia che è sempre nostalgia d’infinito, desiderio troppo spesso disatteso per colpa della nostra comune fragilità. Canzoni da ascoltare tutte, con calma ed una ad una, fino all’ultimo disco, quel Josephine del 2009, uscito nel periodo in cui le condizioni di salute di Molina cominciano drammaticamente a precipitare, e dove la prima canzone –Oh Grace! – sembra davvero l’ultimo istante, forse il più bello, del respiro del suo cuore.
Quando, nel corso del suo contestatissimo tour del 1966, Bob Dylan subì l’ironia e gli insulti da parte del pubblico inglese, accadde che l’artista americano, in una memorabile ed infuocata serata a Manchester – immortalata per sempre nel “Royal Albert Hall Concert” edito dalla Columbia alcuni anni fa – prima di lanciarsi in una delle versioni più straordinarie di sempre di Like A Rolling Stone, si girasse verso i componenti della band, incitandoli a suonare “fottutamente” forte. Le note di copertina del tributo di Glen Hansard a Jason Molina ci invitano a fare altrettanto: “to be played loudly”, è scritto a fronte del cd. E allora facciamolo, senza timore o indugio alcuno. Perché, come disse Jason un giorno, “nulla di ciò che ho scritto dentro le mie canzoni deve essere lasciato solo. Tutto deve respirare nell’aria, perché non corra il rischio di diventare stantio”. E poiché – come dicono ancora quelle note – tutto ciò che s’innalza deve convergere, lasciamo che la musica giunga dove l’aria è più pura, lassù dove abita il desiderio di felicità del nostro cuore. Lo stesso che è scritto anche dentro queste grandi canzoni.