Pare che una volta, chiamato a suonare in un locale, una bettola probabilmente, di qualche città del sud, quando il proprietario del locale lo vide di persona chiese: “Ma Chuck Berry dov’è?”. Sono io, rispose il bell’uomo dagli occhi neri, the brown eyed handsome man. “Ma non scherziamo tu sei un negro, io sto aspettando Chuck Berry”. E lo cacciò. Quella sera non ci fu nessun concerto di Chuck Berry perché il vero e unico Chuck Berry era stato mandato via.
A quei tempi di razzismo imperante, il look un po’ da messicano, i capelli impomatati di brillantina, e con un accurato “imbiancamento” del colore della pelle nei manifesti, Chuck Berry veniva venduto come un artista bianco per superare i rigidi controlli del razzismo. Non sempre funzionava, come in questo caso.
Ma era la regola di un gioco che stava portando a un sommovimento della società più potente di qualunque Martin Luther King o John F. Kennedy: come Elvis, quando la gente sentiva i suoi dischi, pensava era un nero, così Chuck Berry faceva una musica che non era quella dei neri. I benpensanti che avevano in mano il mondo dello spettacolo non capivano più niente, ma questo era il rock’n’roll, nato proprio per confondere regole e pregiudizi, perché urlava forte la voglia di libertà di tutti, bianchi e neri.
Quando portò i suoi primi due brani alla Chess Records di Chicago, la casa discografica del blues per antonomasia, Chuck mise sul lato A un bel blues, Wee Wee Hour, e sul retro una canzone strana, dedicata a una parrucchiera della sua città, St. Louis, Ida Red. Era una canzone che in sostanza usava i trucchi chitarristi degli innovatori del country & western bianchi, i quali a loro volta li avevano appresi dai neri trenta o cinquant’anni prima. A Leonard Chess piacque proprio questo pezzo, lo fece ribattezzare Maybellene e diventò immediatamente una hit. Bizzarro per una casa discografica blues, ma segno dei tempi. Un buon singolo blues poteva vendere al massimo 10mila copie ai tempi, a un solo pubblico di neri, un brano come Maybellene, sebbene Chess non abbia mai reso noto ufficialmente le cifre, vendette almeno un milione di copie a tutti, bianchi e neri.
Passaggi di chitarra country adattati all’arpeggio blues con il legato del pianoforte dell’amico Johnnie Johnson, erano il segreto di questa musica rivoluzionaria. I riff di Chuck Berry resteranno per l’eternità come i riff per antonomasia. Non per niente quando nello spazio venne mandata una navicella con alcuni simboli del nostro pianeta in caso gli alieni la trovassero, c’era anche la registrazione di Johnny B. Goode.
Nel corso della sua carriera Chuck Berry ha forse inciso al massimo una dozzina di brani memorabili, ma la potenza di questi brani è risultata così universalmente devastante che ne hanno fatto una carriera durata fino al momento della sua scomparsa; “Se volete chiamare il rock’n’roll in un altro modo chiamatelo Chuck Berry” disse John Lennon.
Berry come autore di testi fu secondo probabilmente al solo Bob Dylan: parole che sono diventate gli slogan di più di una generazione, a partire di quella degli anni 50, che stava tagliando i legami con dei genitori il cui unico desiderio nella vita era una “pink house” con cucina e lavastoviglie ultimo modello, il giardino curato, moglie ubbidiente e figli indirizzati alla carriera. Questi giovani invece volevano tutto e lo volevano adesso.
“You know, my temperature’s risin’ And the jukebox blows a fuse My heart’s beatin’ rhythm And my soul keeps on singin’ the blues Roll Over Beethoven and tell Tchaikovsky the news”: rock’n’roll e al diavolo Beethoven e Tchaikovsky (che la sorellina suonava impietosamente a casa al pianoforte) e dite loro le news, che i tempi stanno cambiando.
E se Johnny B. Goode era dedicata al suo pianista Johnnie Johnson, che con lui forgiò quel suono memorabile (e che decenni dopo gli fece causa per diritti d’autore, un’altra brutta storia del rock’n’roll come il rock’n’roll ne ha regalate tante e che Chuck Berry subì tante volte), quel brano divenne il simbolo stesso di una musica nuova, eccitante, liberatoria, che probabilmente ogni band, dai Rolling Stones agli ultimi sfigati ragazzini del garage dietro casa vostra, hanno suonato almeno una volta e ancora continuano a farlo.
Chuck Berry aveva subito il riformatorio a 14 anni, e poi due processi, uno annullato per razzismo palese, mentre il secondo gli era costato due anni di detenzione, per una accusa infondata di sfruttamento della prostituzione. Quando ne uscì, Beatles e Rolling Stones, che avevano raggiunto il successo incidendo i suoi brani, gli avevano preso il posto, così come con Elvis, Little Richard e Jerry Lee Lewis.
Chuck Berry avrebbe figurato nella categoria degli oldies, buoni per spettacoli di revival per il resto della vita, ma a lui non importava granché: nel 1972 riuscì a cogliere ancora un successo, il suo primo da un milione di copie, con un brano assurdamente demenziale, My-Ding-A-Ling, canzoncina che raccontava di scherzetti di bambini delle elementari che si facevano la pipì addosso. Eppure la gente lo accolse nuovamente come un urlo liberatorio.
Dopo di che passò il resto della vita rinchiuso nella sua lussuosa villa di St. Louis cacciando giornalisti e intrusi malamente e andando in giro per il mondo a suonare. Si presentava sul posto del concerto da solo, chiedeva di essere pagato in anticipo, voleva che il promoter gli avesse messo assieme una band di accompagnatori del tutto sconosciuti e senza provare saliva sul palco. Una di queste band di accompagnatori, una volta, fu quella di un giovanissimo Bruce Springsteen.
Il risultato di questi concerti con gente che non aveva mai provato insieme erano la metà delle volte disastrosi. Successe così al concertone del primo maggio di Roma di qualche anno fa, una esibizione penosa.
Ma quango la scintilla scattava ancora, non ce n’era per nessuno: lui era l’uomo che aveva scritto Rock’n’Roll Music: “I have no kick against modern jazz Unless they try to play it too darn fast And change the beauty of the melody Until it sounds just like a symphony That’s why I go for that rock ‘n’ roll music Any old way you choose it It’s got a back beat, you can’t lose it Any old time you use it”. Lui era il rock’n’roll.
E adesso, a 90 anni, il sipario è calato. Se il mondo è cambiato in meglio, se i giovani hanno potato sentirsi orgogliosi di essere giovani, se hanno capito che desiderare di essere felici non è un peccato, possono solo ringraziare lui: Roll Over Beethoven and tell Tchaikovsky the news.