Come canzone del Conclave sarebbe stata perfetta, e infatti su social network come facebook, il giorno della fumata bianca e delle campane di San Pietro che suonavano segnalando l’elezione del nuovo Papa Francesco, qualcuno lo ha anche fatto notare. D’altro canto versi come questi lasciano poco scampo alla fantasia: “Suona le campane San Pietro (…) suonale con mano d’acciaio così che la gente sappia”. Chi canta questi versi? Tale Bob Dylan, la voce di una generazione, il profeta del rock, l’arma segreta del 68 e via dicendo secondo la milionata di stereotipi che la stampa ha sempre dato al cantautore americano. Che poi è anche ebreo di nascita e dubitiamo che abbia mai voluto scrivere una canzone sul Conclave, anche perché nel lontano 1989, quando il brano Ring Them Bells usciva nel suo album “Oh Mercy” non c’erano conclavi in giro. D’altro canto con Bob Dylan qualunque canzone da lui scritta è sempre di ardua interpretazione, abile come è a nascondere dietro dozzine di metafore e allusioni il vero significato di un brano.
A noi piace però pensare che Ring Them Bells sia più una canzone pasquale e visto che la Pasqua è appena passata, siamo ancora in tempo per riascoltarla. Ebreo di nascita appunto, ma nel corso della sua vita ha professato anche una clamorosa conversione al cristianesimo evangelico, scatenando le ire di molti suoi seguaci “politically correct”, ha espresso sempre una religiosità profonda, mettendo insieme radici ebraiche e appunto cristianesimo. La Bibbia, poi, è sempre stata per lui fonte di ispirazione massima, tanto da ricavarci anche un intero disco, “John Wesley Harding”.
Ring Them Bells però va oltre la semplice citazione o l’ispirazione biblica. E’ una canzone estremamente esplicita: le figure di santi citati nella canzone (oltre a San Pietro, anche Santa Caterina e la Dolce Marta) ne fanno un brano anche cattolico.
Ring Them Bells, nel suo affascinante piccolo mistero, è un pezzo che afferma qualcosa di preciso: “Suona le campane, così che tutto il mondo sappia che Dio è uno”. Questo brano è una esplosione di immagini sacre, ma non solo: è una affermazione. Come il mattino di Pasqua, quando le campane si liberano finalmente dei legami imposti dal lungo tempo di Quaresima ed esplodono in suono gioioso, affermando una presenza inconfutabile, così lo fa questa canzone. Il richiamo alle pecorelle sperdute, al pastore addormentato, sono immagini che si legano sempre con la Pasqua: “Il pastore si è addormentato, là dove il salice piangente e le montagne sono piene di pecore perdute”. L’invito è per tutti, anche i non credenti: “suonate le campane voi atei, dalla città che sogna, suonatele dai santuari attraverso valli e torrenti”. Nessuno venga escluso. Nell’incedere emozionante del brano, inciso per sola voce e pianoforte con un discreto accompagnamento di organo in sottofondo, un andamento tipicamente gospel pur se in solitudine, Dylan sta alzando forte una richiesta: sta chiedendo che le campane di tutto il mondo tornino a suonare.
Che le chiese non siano più inquietanti maestosi edifici abbandonati. Le campane delle chiese, che un tempo richiamavano i contadini a interrompere il lavoro per dire l’angelus. A risvegliare l’umanità assopita: “Suona le campane per il cieco e per il sordo suonale per tutti noi che ci siamo persi, suonale per i pochi prescelti. Ma chi giudicherà i molti quando il gioco sarà finito? Suona le campane per il tempo che vola via, per il bambino che piange quando l’innocenza muore”. Dramma e lacrime e dolore vanno di pari passo con la nostra umanità ferita, che nulla sembra sufficiente a redimere (“stanno distruggendo la distanza fra il bene e il male”).
Per questo non resta che affidarsi ai santi perché intercedano per noi: “Suona le campane santa Caterina, da lassù in cima, suonale dalla fortezza per le violette che sbocciano, i tempi sono lunghi, e la battaglia è dura”.
Nel 1994 Dylan insieme ad altri cantanti fu ospite di un evento straordinario, un concerto tenuto ai piedi di uno dei massimi templi buddisti, a Nara. Per la prima e unica volta nella sua carriera si esibì dal vivo accompagnato da una imponente orchestra d’archi condotta dallo scomparso direttore Michael Kamen. Fu uno dei vertici della sua carriera di performer, e uno dei brani che eseguì quella sera fu proprio Ring Them Bells con un pathos e una potenza espressiva che lasciarono senza fiato. Fu chiaro, in tutti quelli che erano lì quella sera, rock fan, semplici spettatori, monaci buddisti, cosa stava cantando l’artista americano: “Suona le campane, così che tutto il mondo sappia che Dio è uno”. Mentre un monaco buddista faceva risuonare un grande gong sui dolori e le ferite di tutto il mondo.