Pensando a Glen Hansard, mi vengono in mente due scene in particolare. La prima: Grafton Street, Dublino, verso sera, la via principale della capitale irlandese completamente deserta, un giovane busker dalla barba rossa e dal cuore spezzato, che ha suonato e cantato per tutto il giorno, si lascia andare ad una intensa e rabbiosa versione di “Leave”, quasi un urlo che scaturisce dagli spazi più profondi e segreti di un cuore lacerato dalla sofferenza e dalla mancanza.
Poi siamo da qualche parte nella periferia di Dublino, su una strada solitaria che immette su un paesaggio desolato il cui aspetto preciso ora non riesco a ricordare. Glen è con alcuni amici e col proprietario dello studio che ha appena registrato loro un cd demo con alcune canzoni originali. Parcheggiano l’auto, spengono il motore e mettono il disco nel lettore. Dopo qualche istante, le note di “When Your Mind’s Made Up” invadono l’aria e questi ragazzi scalcagnati e sognatori capiscono di avere fatto un ottimo lavoro…
Avrete probabilmente riconosciuto “Once”, il film di John Carney uscito nel 2006, che ha fatto incetta di premi, nonostante parlasse tanto di musica e fosse girato senza troppe pretese. Lo cito perché quel film visto quasi a caso, su consiglio di un amico, me lo porto ancora dentro. Non solo per la storia (un film d’amore dove per una volta l’amore è veramente amore, e non istintivo e squallido sentimentalismo egocentrico) ma anche (e forse soprattutto) perché mi fece scoprire le straordinarie doti di Glen Hansard come songwriter.
Era infatti lui il protagonista del film, allora conosciuto unicamente per essere il cantante dei The Frames e per aver recitato in un altro film (sempre a tema musicale), “The Commitments”, uscito nel 1991 con Alan Parker come regista.
I The Frames, all’epoca, manco sapevo chi fossero. Se lo avessi saputo, non mi sarei sorpreso perché di grandissime canzoni ne aveva già scritte parecchie, ma ad ogni modo, tutto quello che ascoltai quella prima volta, e in particolare i due pezzi appena citati, mi fecero capire che quel ragazzone allegro dalla barba rossa sarebbe presto finito in posizione preminente tra i miei ascolti.
All’epoca l’avventura con la band era stata messa in pausa, e il successo del film (il pezzo “Falling Slowly” vinse un Oscar come miglior colonna sonora ed è tuttora un tormentone ai suoi concerti) gli fece proseguire il sodalizio con la giovane cantante Marketa Iglova che, contrariamente a quanto successo sul grande schermo, era diventata nel frattempo la sua compagna di vita.
Dopo il disco della colonna sonora di “Once”, che conteneva in realtà quasi solo brani dei The Frames reinterpretati dai due, era uscito “Strict Joy”, un ottimo lavoro di canzoni inedite, sotto il monicker The Swell Season.
Non durò molto, comunque, visto che rottura del rapporto affettivo portò rapidamente ad uno split obbligato.
E fu così che Glen Hansard si avviò al passo del disco solista, un passo che più o meno tutti in quel periodo si aspettavano da lui. I The Frames non sono morti (sono nati come gruppo di amici e tali rimangono, ogni tanto tengono qualche show isolato e alcuni membri suonano in pianta stabile nella band di Glen) ma il talento compositivo di questo irlandese è troppo grande e la sua personalità troppo forte perché si possa pensare di metterla semplicemente al servizio di un gruppo.
Oggi, trascorsi tre anni da quel “Rhythm and Repose” che lo ha consacrato come uno dei più grandi cantautori della nuova generazione, Glen Hansard ha finalmente completato i lavori per il nuovo disco.
“Non ci sarà più nessun correre in giro, per me, nessuna ritirata, lo vedrai. Qualunque cosa ci sia in serbo per me, la supererò. Non ci sarà più nessuna cosa lasciata incompleta, faresti meglio ad ascoltare queste parole che ti dico. Qualunque legame ci sia ancora a trattenermi, lo taglierò via (…) La linea è tracciata, è meglio che il mio nemico non la oltrepassi”.
Si apre così “Grace Beneath The Pines”, il brano che dà il via a questo lavoro. Una partenza quasi in sordina, una melodia eterea dall’alto contenuto spirituale, che parla del coraggio di ripartire, di affrontare le avversità senza mai tornare indietro.
“Didn’t He Ramble”, si intitola questo disco ed è una domanda che, conoscendo l’autore, diviene assolutamente retorica: certo che ha vagabondato, Glen Hansard, questo busker allegro e gentile, totalmente votato alla sua musica, che ancora adesso porta avanti un concerto come se fosse in una qualsiasi bettola di Galway o Cork. E del resto anche il titolo è significativo: perché “Didn’t He Ramble” è anche il titolo di una vecchia composizione di W.C Handy, rifatta poi da grandi jazzisti come Kermit Ruffins e Sydney Bechet.
Già il fatto che uno come Hansard, irlandese imbevuto di Irlanda, citi esplicitamente un pezzo che ha piuttosto l’America come orizzonte culturale di riferimento, può sembrare strano. In realtà, non è strano per niente: chi lo ha visto dal vivo negli ultimi anni, si è potuto rendere conto perfettamente che i suoi modelli sono molto più vasti di quello che si sarebbe portati a credere.
Già Paolo Vites, nella sua recensione del concerto milanese del febbraio 2013, aveva paragonato la big band con cui Hansard si era esibito, alla Caledonia Soul Music del periodo d’oro di Van Morrison. E leggendo tra le note stampa di questo cd, ecco che è proprio quello di The Man uno dei nomi che vengono tirati in ballo (assieme a quello di Leonard Cohen) per descrivere la natura delle nuove composizioni.
Composizioni che sono state registrate in gran parte tra New York e Chicago con la supervisione (oltre che dell’ex The Frames Dave Odlum) di Thomas Bartlett, il talentuoso pianista noto soprattutto per la sua collaborazione di lunga data con Antony Hegarty ma anche con The National e Sufijan Stevens, vale a dire tra le cose migliori oggi sulla piazza, quando si parla di rock americano.
Se aggiungiamo che c’è pure la presenza di Sam Beam degli Iron & Wine (un altro che di folk a stelle e strisce se ne intende parecchio) possiamo capire come su questo secondo lavoro di Glen Hansard si respiri davvero un’aria diversa.
L’impressione generale è che si tratti di un disco in punta di piedi. Laddove “Rhythm and Repose” era ancora poco composto, a tratti istintivo, più in linea con l’autore romantico, battagliero e sognatore che avevamo conosciuto nei The Frames, questo “Didn’t He Ramble” sembra provenire da un uomo che ha raggiunto un suo equilibrio, che vive sereno e che canta questa serenità quasi sussurrando, attraverso composizioni di una semplicità estrema, a tratti quasi banali, ma in realtà consistenti e profonde, che emozionano in pochi istanti grazie alla forza della verità di cui sono imbevute.
È il caso di “Winning Streak”, il singolo, che era stato anticipato già a giugno, accompagnato da un bel video in bianco e nero di ambiente pugilistico. Non mi era sembrato granché all’inizio, forse proprio per la sua estrema semplicità (strofa, ritornello con armonie vocali, un’atmosfera da ballata folk piuttosto scontata) ma col crescere degli ascolti, proprio quella semplicità è risultata vincente, visto che oltretutto si accompagna ad una melodia totalmente azzeccata.
“Attraverso le lunghe estati e gli inverni freddi, che tu possa sempre avere qualcuno da stringere, e possa la fortuna attenderti ad ogni svolta del cammino, e possa la tua serie di vittorie non finire mai. Per cui lancia il dado, ragazzo, ho puntato i miei soldi su di te. Segui il mio consiglio adesso e gioca anche tu i tuoi soldi. Perché c’è qualcosa nei tuoi occhi che non puoi fingere, e possa la tua serie di vittorie non finire mai”. Parole bellissime, per una canzone che è soprattutto un augurio a vivere la vita pienamente, fino in fondo, confidando nelle proprie capacità e nel fatto di non essere soli. Una sorta di “Forever Young” versione 2015, sembrerebbe a tratti, e non è certo una cosa di cui vergognarsi.
Oppure la seconda traccia, “Wedding Ring”. È una ballata blues al limite dell’essenziale, costruita su due accordi e con un arrangiamento piuttosto scarno. Anche qui però ci sono bellezza e verità a palate, una domanda struggente sul matrimonio, se veramente possa bastare una promessa suggellata da un anello, per tenere in piedi quel che sembra così difficile da far durare: “Fede nuziale, fede nuziale, piccolo cerchio d’oro, sarai abbastanza forte da custodirla, da evitare che il suo amore diventi freddo?”.
“Her Mercy” è invece un meraviglioso crescendo dal sapore gospel, che parte in sordina ed esplode in un tripudio di fiati e che sta a metà tra certe cose di “Moondance” e la “My City of Ruins” di Springsteen. Il testo ricorda che la misericordia, questa parola così incomprensibile, è in realtà ciò di cui ogni uomo sembra avere davvero bisogno (“Misericordia, misericordia che viene da te, senti la sua bellezza che ti scorre attraverso, lei ti libererà, lascerà libera la parola, misericordia, misericordia”.).
La successiva “Mc Cormack’s Wall” è una ballata pianistica dal feeling malinconico e dall’atmosfera quasi da ninna nanna, che chiede perdono con dolorosa consapevolezza per un amore finito (“Bene, non sono stato onesto, mia cara, non sono stato per niente sincero. Ti chiedo perdono, per la notte in cui abbiamo saltato il muro di McCormack. Ero così contento, solo per il fatto che ero lì con te, e avrei detto qualsiasi cosa. Adesso posso solo gridare il tuo nome finché tu non farai lo stesso, ma so che non risponderai. Bene, adesso siamo qui. Che cosa possiamo fare? Sto navigando su un fiume nero”). Nel finale l’atmosfera cambia completamente, entra un violino (suonato da John Sheahan dei The Dubliners, giusto per non farsi mancare nulla) e per un minuto abbondante tutto si trasforma in una danza da pub: “It’s a song of drinking” ammette in effetti Glen nell’ultima strofa.
“Lowly Deserter” è stato il secondo brano ad uscire come singolo e costituisce l’esatto opposto di “Winning Streak”: si tratta di una marcia incalzante e quasi aggressiva, con i fiati in bella evidenza a dettare il ritmo, ha una bella melodia orecchiabile ed è una di quelle che più è stata influenzata dalla presenza della band con cui Hansard ha suonato negli ultimi anni.
Con “Paying My Way” si cambia nuovamente ritmo e si ritorna alle atmosfere più intime e rilassate che ammantano quasi tutto il disco. Si tratta di una ballata alquanto lineare, dove lo spirito dell’ultimo Bruce Springsteen aleggia sia sulla musica che sul testo, il pensiero schietto che la vita è fatta di fatica e che nulla è regalato (“Bene, non puoi semplicemente ottenere quel che vuoi, senza lavorare un po’ ogni giorno. Non puoi semplicemente allungare la mano, non funziona così. Sarà molto lunga, lavorerò per tutta la notte. Sarà molto lunga ma sto pagando per me”.).
“My Little Ruin” è invece l’unico episodio che si richiama piuttosto esplicitamente al primo disco, con quel feeling drammatico, la presenza degli archi e il crescendo del ritmo con tanto di esplosione vocale di Glen che qui, per una volta, canta come aveva sempre cantato prima.
Con “Just to Be the One” arriva il primo e unico pezzo davvero trascurabile di tutto l’album: una canzone d’amore senza troppe pretese, un flauto ad accompagnare la chitarra acustica ma una melodia scontata che non decolla mai.
Ma è solo un attimo di smarrimento perché con “Stay the Road” il disco si riporta e si conclude su livelli altissimi. Una ballata acustica dal sapore di commiato, allo stesso tempo malinconica e speranzosa, un augurio ad alzare le vele, ad andare sempre avanti, nella convinzione che la vita riserverà sempre e comunque qualcosa di bello (“Ho scavato dentro a un buco nero, ho scavato nella roccia, alla ricerca di un cuore d’oro che non può essere comprato o venduto, ce l’ha lei dentro di sé. Ho lavorato per stupirti, ho scavato a lungo e duramente. E non mi fermerò, riempirò la mia tazza, il mio lavoro adesso è appena cominciato”.).
Da noi Glen Hansard arriverà il 14 e il 16 ottobre per due date, rispettivamente a Milano e Bologna. Perderselo dopo un disco del genere sarebbe davvero un delitto…