Don Pasquale è l’opera maggiormente rappresentata all’estero, ancor più che in Italia, di Donizetti. L’edizione realizzate a Jesi (i cui laboratori hanno predisposto scene e costumi) è particolarmente significativa in quanto lavoro congiunto di ben tredici teatri che lo co-producono. Oltre alla Fondazione Pergolesi Spontini di Jesi, quelli di OperaLombardia(Bergamo,Como,Cremona,Pavia).
In Francia i teatri di Clermont Ferrand, Reims, Limoges, Rouen, Saint-Etienne,Massy, Avignon e Vichy. Quasi una cinquantina di repliche , articolate su diversi mesi, in cui i quattro protagonisti principali (ed i loro sostituti) ed il maestro concertatore e direttore d’orchestra restano essenzialmente gli stessi, ma le orchestre ed il coro variano a seconda delle disponibilità locali. Un modo intelligente per reagire, senza tante geremiadi, alla crisi in generale ed a quelle dei teatri lirici in particolare.
A coloro che pensano che Don Pasquale sia un’operina per teatri di provincia, occorre ricordare che al “Théâtre des Italiens” parigino, il 3 gennaio 1843, (“prima” mondiale del lavoro) il ruolo del protagonista era interpretato da Luigi Lablache, il quale con altri due interpreti della serata – Giulia Grisi e Antonio Tamburini- aveva portato al trionfo “I Puritani di Scozia” di Vincenzo Bellini. Il libretto firmato da Giovanni Accursi (ma in realtà è dello stesso Donizetti con Giovanni Ruffini) è chiaro: Don Pasquale, zitello, è ancora “ardito” (sessualmente, parlando), sente “un foco insolito”, si “strugge d’impazienza” al pensiero di “prender moglie”. In effetti, l’età dei quattro personaggi del capolavoro di Donizetti è più o meno la seguente: Don Pasquale è sulla quarantina, il mefistofelico Dottor Malatesta sulla trentina, il “nipotino” Ernesto (cresciuto dal Don come se fosse un figlio) ha sì e no 25 anni e Norina tra i 18 ed 20.
Sono passati poco più di due lustri dal rossiniano “Le compte Ory”, ultima opera sfacciatamente erotica (dalla prima all’ultima nota) di compositori italiani prima che il capitolo venga riaperto (ma dopo oltre 70 anni) dalla pucciniana “Manon Lescaut”: nel 1843, nel teatro lirico italiano sta per iniziare la notte dell’eros del melodramma verdiano. Già malandato e precocemente invecchiato, Donizetti, che aveva scavato nell’eros con le tre opere dedicate alle tre regine Tudor e nel 1840 aveva composto la carnalissima “La Favorite”, guarda in “Don Pasquale” con ironia al mondo, inebriando di champagne un canovaccio vetusto. L’ironia non ha nulla di farsesco – come ci dice una delle partiture più raffinate e, quindi, più difficili di Donizetti ed una vocalità che, nel 1843, aveva richiesto gli interpreti dell’apoteosi del “bel canto”. E’ intrisa di leggera malinconia; il terzo atto pare preconizza lo sveviano Senilità. Perché questa premessa? L’iconografia tradizionale (formatasi nella seconda metà del XIX secolo) mostra un Don Pasquale vecchio e brutto, un Ernesto malandrino, una Dorina tutto pepe (ma poco eros) ed un Malatesta furbastro.
Don Pasquale è un’opera scintillante, di eleganza raffinata, scritta per Parigi dove Donizetti è un compositore affermato. L’archetipo comico del vecchio amoroso e della ragazza scaltra gli viene dalla memoria, dal Ser Marcantonio di Anelli, musica di Pavesi, del 1810, semplificato e personalizzato. C’è la Roma che il giovane Donizetti ha frequentato, nella casa borghese di un Don Pasquale. Il protagonista è un buffo, tipologia di cantante caratterista di cui Donizetti ha appreso a Napoli la tecnica di recitazione ammiccante, dizione scandita, eleganza, canto sillabato vorticoso; il compositore si immedesima nel buffo Don Pasquale e lo trasforma in personaggio, un po’ autobiografico nella malinconia; proietta caratteri comici anche sul baritono, che per finzione condivide le reazioni di Don Pasquale ma è anche artefice del suo matrimonio per burla a favore della brillante fanciulla e di Ernesto, il nipote a cui lo zio non vuol concederla. È magnetica la scena del Dottore che insegna alla ragazza a presentarsi da sempliciotta e la prontezza di lei, decisa a tutto. Successo immancabile, con l’imprevisto di Ernesto, non avvertito, che viene a congedarsi dopo una stupenda aria con tromba e diventa testimone sbalordito, e poi divertito alla fulminea metamorfosi della sposina sottomessa in capricciosa provocatrice. Irrefrenabili le conseguenze, fra andirivieni di fornitori dispendiosi e commentare spumeggiante, a valzer, del Coro di servi; si fronteggiano la “civettella” che corre a teatro e il “marito”, e lei gli dà uno schiaffo.
La commedia precipita in verità. Il vecchio, offeso, piomba nella desolazione, le parole gli escono frantumate (È finita, Don Pasquale) e orchestra, pubblico sono dalla sua parte, perfino Norina che, sulla stessa melodia delLarghetto, commenta “È duretta la lezione”. Elegiaca, ma infida, lascia cadere un biglietto di convegno amoroso. Ma quando la Serenata avvolge il giardino, su un sussurrare di chitarre e tamburelli come nelle trattorie romane, e il duetto avvince i due giovani innamorati, siamo tutti con loro, per la loro giusta felicità da cui il vecchio è escluso. Pur di liberarsi dalla moglie, più rassegnato e saggio, li perdona.
Nella versione dei tredici teatri (gustata il 13 novembre a Jesi), l’ambientazione , che Donizetti, voleva contemporanea è spostata nella Roma dei ‘generoni’ e di ‘Hollywood sul Tevere’ degli Anni Cinquanta. Le scena (Lorenzo Cutùli, autore anche dei costumi) è dominata da due elementi: l’enorme cassaforte (dove il ricco e spilorcio Don Pasquale custodisce la sua ricchezza) che domina la casa del protagonista ed un grazioso giardino dove Ernesto e Norina consumano il loro idillio. I costumi ricordano gli Anni Cinquanta, ma Don Pasquale appare più vecchio e grosso di quello che, a mio avviso, dovrebbe essere. Le regia di Andrea Cigni è molto teatrale (ottima la recitazione) ma punta più sul comico che sul melanconico della senilità incipiente.
Di buon livello la prestazione dell’Orchestra Filarmonica Marchigiana guidata da Giuseppe La Malfa, un giovane direttore d’orchestra che ha di fronte a sé una promettente carriera. Ha sempre tenuto le sonorità giuste (anche con alcuni ottoni non proprio eccezionali) ed ha sempre tenuto l’equilibrio adatto tra elementi farseschi e riflessivi. Di gran livello, i tre interpreti maschili: Paolo Bordogna (diventato ormai il ‘Re’ di questo genere come mostra, ad esempio, la sua frequente presenza al Rossini Opera Festival), il baritono spagnolo Pablo Ruiz ed tenore Pietro Adaini (dal timbro chiaro e vellutato ed un volume che ha più volte portato la sala all’applauso a scena aperta ed a ovazioni al termine dello spettacolo). Una giovane (22 anni) kazaka Maria Mudryak è Norina; ottima recitazione, voce ben impostata e volume di rilievo, ma , a mio giudizio, dovrebbe essere guidata verso ruoli più ‘pesanti’ di quelli di soprano lirico leggero con una buona dose di coloratura. Tra non troppi anni vorrei ascoltarla in Manon Lescaut.