LIGABUE CAMPOVOLO 2011 – Quando si portano più di centomila persone a un concerto nella vecchia Italia, c’è poco da dire, si può solo applaudire. Il signor Luciano Ligabue ha rigiocato la scommessa del Campovolo, che già aveva vinto nel 2005 (con oltre centocinquantamila presenze) ed è difficile dire che gli manchi il coraggio. A cinquantanni suonati, con dodici dischi nell’archivio – escluse le colonne sonore e i Best of – il musicista di Correggio conferma voglia di palco, di musica elettrica suonata, chiassosa e vibrante, in compagnia di gente di vaglia, uno su tutti, Mauro Pagani. Il Campovolo numero due porta ancora sotto al palco una moltitudine di giovani e non più giovani che hanno voglia di chitarre e di watt, di qualche buon riff e di alcuni ritornelli da urlare nella notte, alla faccia di chi si ritira per sopraggiunta età da pensione e di chi si prende qualche anno di riflessione.
Ieri il rock italiano era Vasco, oggi è Ligabue. Almeno dal punto di vista del rock da grandi numeri e da facili messaggi. Ieri c’erano Albachiara e Siamo solo noi, Liberi liberi e Vita spericolata, inni di un cazzeggiamento godereccio, autodistruttivo e autarchico, espressione di un’epica rock che è stata la fortuna di Keith Richard Mick Jagger. Oggi le folle, il palco, la passione sono dell’autore di Hai un momento Dio. Forse è ormai vero che il Liga – al punto di vista strettamente produttivo – non ha più le qualità di scrittura dei primissimi dischi, anche se l’ultimo suo lavoro, Arrivederci mostro ha alcuni pezzi ragguardevoli, in compenso nessuno come lui interpreta oggi quella vena che piglia da Spingsteen energia, carica e presenza live in quel mix di romanticismo, retorica, nostalgia e tristezza (Urlando contro il cielo, Ho messo via e Il giorno di dolore che uno ha sono canzoni che il Boss avrebbe tranquillamente inciso) che è del vero rock planetario.
Ma lasciamo perdere il “valore assoluto” dell’emiliano Luciano, quel che impressiona in lui è la voglia di prova di forza. L’estate italiana è da anni al pari di Europa e States, un unico palco per scorribande musicali e reunion, da Robben Ford ai Return to Forever, da Prince a Biagio Antonacci, dai Modà ai Subsonica. Ma un conto sono i concerti, un altro discorso sono centomila spettatori. E in un epoca in cui tutti, dai Muse ai Negromaro e persino pure i Take That, riempiono lo stadio che era stato di Bob Marley, cioè San Siro (e su YouTube sono già presenti le sublimi immagini dei cinque bamboccioni capeggiati da Robbie Williams in formato adult-superstars), la questione è dare segnali diversi. Segnali di forza. Uno l’ha dato Pino Daniele esibendosi in un superconcerto con Eric “slowhand” Clapton (non è da tutti scrivere un pezzo raffinato come O’Scarafone e trovarsi a suonarlo con uno dei tre più famosi chitarristi della storia del rock). L’altro segnale, il più forte, è questo messaggio in spazi aperti che si chiama Campovolo. Come dire: chi ha il rock nel sangue e una gioiosa macchina da musica a disposizione (cioè: mega organizzazione alle spalle) si faccia avanti. In attesa di pretendenti, oggi il “re” è lui. Dopodiché Ligabue per me rimane e rimarrà sempre quello di Marlon Brando è sempre lui e di Bambolina e barracuda. Anzi, dimenticavo: rimarrà per sempre quello di Bar Mario, con il Bistecca che urla per una primiera e la guardia che si fa un caffè e poi se ne va…