Un dispositivo dal funzionamento collaudato più che una stravaganza d’artista, l’usato sicuro piuttosto che la scommessa su un rinnovato azzardo dell’antico genio. Il nuovo disco dell’ultimo grande Beatle in grado ancora di alitare sul mondo quell’antico e mai sopito spirito santo della grande musica rock, vuole essere questo e solo questo. Pura rassicurazione domestica priva di autentico senso della missione e della tensione di un tempo, forse un ideale congedo da un grande e sontuoso matrimonio dove tutto ciò che rimane di veramente significativo di quel grande evento di vita e di condivisione tra sposi e invitati sono i confetti finali. Signore e signori questo è il settantenne Paul McCartney.
Genio che si presenta oggi come il grande attore ormai concentrato sul solo grande copione in grado di portare in scena (gli antichi splendori beatlesiani e le poche ma non irrilevanti gemme del prosieguo di carriera). O come il grande chef in grado di preparare e servire ai suoi ospiti abituali una sola grande portata senza riuscire a tenere alto il nome del celebre ristorante che fu, ed anzi mettendo in atto un giro perverso di pietanze e improbabili leccornie il cui solo tangibile effetto è quello di restringere la clientela dei fedeli estimatori. Questo è oggi Paul McCartney. Un artista che – lasciatosi alle spalle l’ultima importante sortita creativa di “Chaos and Creation in the Back Yard” (2005) – avrebbe un sincero e struggente bisogno di tirar fuori non più di cinque buone canzoni in un lasso di tempo di sei anni – tanti ne sono trascorsi dal precedente lavoro d’inediti – senza violentarsi o essere violentato per estrarne a viva forza gli ultimi frutti di una carriera condotta allo stremo, quasi come un antico albero malfermo da sfruttare al massimo per l’ultima grande castagnata autunnale.
Questo è il McCartney attuale. Sembra triste e lo è davvero perché sir Paul si rassegna ad esternare e declamare aforismi come un grande vecchio il cui carisma è consegnato – carta bianca – nelle mani di scafatissimi, scaltri e incoscienti produttori che finiscono per essere i veri protagonisti del disco. “New”, titolo che denuncia la più latitante e grigia delle fantasie (meglio sarebbe stato il più genuino eponimo), è un disco in prevalenza parto dello sciagurato burattinaio Giles Martin (capo della famigerata accolita dei produttori del lavoro), prova vivente delle gravi conseguenze innescate dall’uso disinvolto dello status di figlio d’arte. Il disco può essere diviso in due parti.
Da una le cinque canzoni che rappresentano il parto desiderato da McCartney (quello di un EP vecchia maniera), uscite dal grembo del nostro come pegno più genuino di quell’antico patto tra amore e pregiata ingegneria musicale. Dall’altra – purtroppo – tutto il resto. Il disco si apre in maniera non dissimile dal predecessore del 2007 e dopo due canzoni che ammiccano vivaci e brillanti promettendo sfracelli, va ad imboscarsi nella panacea di un innocuo deja vu infarcito di una produzione che snocciola il campionario più grossolano del trend attuale delle diavolerie da consolle. L’irruzione sonora è delle migliori con una Save Us che lievita fresca e scoppiettante su un riff di matrice hard’n heavy mediato da una produzione moderna che in questo caso non fa danni.
Per molti versi ingegnosa è Alligator dove i suoni portanti che strutturano la canzone sono valorizzati e combinati come meglio non si potrebbe. Un riff tastieristico gioioso e pieno d’humor apre il campo ad un vivace e contagioso marziale impreziosito da splendide successioni d’accordi di chitarra elettrica.
Tutto bene dunque? No, il disco praticamente finisce qui e proprio come nel caso del predecessore “Memory Almost Full” (mai titolo fu più profetico) va ad impaludarsi nel risaputo e più omologato intruppamento sonoro, territorio dove Martin e squallida cricca al seguito la fanno da padrone o, per meglio dire, redigono il manuale perfetto del non prenderci mai. Ecco allora la vuota perizia mestierante di una On My Way to Work, e in aritmetica successione i modesti saldi d’outlet di Queenie Eye, Early Days e New. Tutto all’insegna di un invadente anacronismo che pesca in egual misura da Wings, Rolling Stones e Beatles. Il suggello è nei tediosi ritmi caotici di Appreciate e I Can Bet. Tutti episodi che recano il comune denominatore di un uso acritico e seriale fino allo sfinimento del più aggiornato vocabolario electro-noise. Una serie che inferisce al disco un colpo mortale, si direbbe una sequenza da k.o. tecnico senza possibilità di controreplica. Ma proprio in quel mondo strano e indecifrabile della musica dove non c’è nulla di matematico e definitivo, ecco il colpo di coda tipico del genio che rimanda a quel misterioso primo contatto con l’origine divina che l’ha concepito e voluto come donatore sui generis del proprio sangue.
Quel McCartney tenuto sotto stretta sorveglianza nel carcere speciale degli accentratori del suono, riemerge prepotentemente con il bellissimo tappeto acustico folk-rock di una Everybody Out There dotata di un irresistibile taglio da singolo e persino con la lenta catarsi di una Hosanna e in parte di Looking at Her che suggeriscono un’epifania di presenze atemporali in continua rotta di collisione. In chiusura il sentore epico di una Road che nell’arco di poco più di quattro minuti sa stupire per veemenza espressiva e lucida visione.
Un basso ora pulsante ora turbolento tratteggia un’atmosfera che cresce a fuoco lento fino a cambi ritmici e accordi di piano che virano repentini su distese di handclap in un flusso sonoro che ingloba noir, suggestioni weilliane e psichedelia. Una conclusione che sfiora l’eroico alimentando uno strano senso di smarrimento che lascia intatto il grande e irrisolto interrogativo. Per restituire McCartney a se stesso e al suo unico vis-à- vis con il grande creatore originale, bisognerebbe far piazza pulita dei tanti vice-Dio che vorrebbero rimodellare il grande sir secondo la loro sbiadita e triste immagine. Ma il nostro Macca sarebbe davvero disposto a correre questo rischio?