C’era una volta un paese antico e sperduto in un tempo ancestrale abitato da fantasmi. Spiriti del bene e del male si lanciavano sfide continue e giocavano le proprie presenze oltre tombali a puntare sulle vite di questo mondo, come bookmaker ultraterreni pronti ad impadronirsi dell’essere mortale su cui scommettere. Spiriti ribelli e ambigui che hanno puntato quel sottobosco di uomini e donne di genio che andava a sconvolgere e turbare la quiete di un mondo adagiato nel benessere e nelle sicurezze inveterate di dieci lustri fa.
Una grande rivoluzione culturale ma soprattutto umana, un terremoto senza precedenti, pieno di segni di sé negli anni a venire. Uomini di talento e di sfida. Donne come moderne Giovanna D’Arco, visionarie e tormentate, seducenti e sedotte, conquistatrici e oppresse. Nicole Atkins – cantautrice americana del New Jersey – doveva essere l’ultima nata in quel gruppo di sopravvissuti che riuscì a saltare sul convoglio che nascondeva l’ultima provvista, la ricetta segreta di quella pozione magica, la sostanza occulta che aveva partorito tante unicità femminili di quel tempo.
Personalità magnetica, ora strega, ora cantrice di entusiasmi ribelli, ora ritrattista di esistenze sull’orlo dell’abisso, ora madre e femme fatale. Sfumature molteplici che a volte prevalgono l’una sull’altra, a volte si mischiano senza soluzione di continuità.
Un esordio – “Neptune” del 2007 (dal nome della sua hometown) – che porta in scena il suo lato luminoso e sfrontato tra provocazioni e tenerezze, sorriso e sberleffo, nostalgia lieve e abbozzi di chiaroscuro. Canzoni ricche di spunti assestate sulle coordinate devote al sound dark-western dei tardi sixties. Scansioni forti, suono robusto e impastato come nei vecchi dischi mono, talora appoggiato da archi distorti ed euforici (Toghether We’re Both Alone, Kill the Headlights), talaltra da escalation epiche care al wall of sound spectoriano (Cool Enough). In una parola un disco splendido.
Tre anni e mezzo per il sequel “Mondo Amore” ed ecco l’altra faccia della medaglia. La passione per le sonorità fine ’60 si contamina dei primi furori della decade successiva in un disco che mette a tema il lacerante epilogo di una relazione. La sottile malinconia dell’esordio si tramuta in disillusione, l’input rock aggancia tenebrosi cenni blues e sfuriate punk. Un disco che, pur segnato da un songwriting discontinuo, non lesina trovate e spunti di rilevo che confluiscono nel memorabile brano di chiusura The Tower. In sei minuti il mondo sonoro abbracciato dalla Atkins si dilata portando all’estremo un immaginario sospeso tra spirito e carnalità in un affresco noir e decadente che tra chitarre sontuose e accordi a bruciapelo racconta dello sgomento di una resa.
Tre anni esatti, un’intensificazione dell’attività on the road e un tour europeo che la vede – solo chitarra e voce – anche in Italia come supporter degli Eels, sorpresa per caso in quel fazzoletto di palco ritagliato apposta per lei in un Alcatraz che sembra immenso. Me lei lo è di più. Una forza della natura, una seduttrice fascinosa e maudit, la più bella delle rivelazioni donate dal cielo.
Alla fine di questo lungo periodo e di esperienze varie il nuovo lavoro intitolato “Slow Phaser” la vede – a 35 anni compiuti – sempre più sensuale, viva e magnetica. Anticipato da un diario di bordo tenuto sempre aggiornato sul sito FB dell’artista, il disco vede la luce all’inizio dello scorso febbraio. Registrato a Malmo con la ritrovata la complicità del cast che aveva presieduto l’album d’esordio, in primis Tore Johansson alla produzione, al basso e alle chitarre e Martin Gjerstad alle tastiere, il lavoro si avvale del prezioso contributo nella scrittura di alcuni brani del bad seed Jim Sclavunos.
La sintesi tra le più ispirate istanze che hanno permeato il tessuto sonoro dei due precedenti (Orbison, Spector, Brill Building sound) è pressoché perfetta, la vena onnivora e il naturale talento della nostra conferiscono al tutto un surplus di creatività viva e originale. Il suono impastato dell’esordio e quello frenetico del sequel lasciano il passo ad un disegno preciso e dinamico con ciascuno degli strumenti base che ha buon gioco a conquistarsi una posizione definita nello spazio sonoro. Who Killed the Moonlight in apertura raduna in un corpo unico pop, girl group sound, seduzioni della prima disco e sferzate rock. Il mood tipicamente retrò si combina ai primi Blondie forte di un’eccentricità e di una leggerezza che fanno capolino anche in altri due episodi pop di squisita fattura come il singolo Girl You Look Amazing e Cool People.
Il resto del disco passa in rassegna come meglio non potrebbe la vivacissima multiformità del repertorio della musicista americana, dal velato e scurissimo battente di We Wait Too Long al respiro epocale di una It’s Only Chemistry affascinante ibrido tra western saloon d’antan e moine alla Bonnie Tyler, mentreSin Song è un brevissimo intermezzo all’insegna del più dissacrante dei divertissement.
Nella parte centrale prende forma e sostanza una storia che ama raccontarsi come apoteosi di una rivelazione. Da una solenne Red Ropes giocata su un rincorrersi di arie noir ed echi francesi a una What do You Know? che in meno di quattro minuti spiazza per il suo concentrato di dark rock e Genesis evocati nella serpentina di un synth che insegue i deliri visionari del Tony Banks di Down and Out. E ancora una sfavillante The Worst Hangover che mette in fila una successione di variazioni armoniche da manuale seguite da una chiusa a strettoia.
Difficile scegliere la migliore tra queste eppure se è lecito arrivare a tanto Gasoline Bride sintetizza al meglio la brillantezza di scrittura e di interpretazione di questa strana eroina del New Jersey. Sensualità, carisma, adulazione e visionarietà graffiante si spartiscono la scena in un capolavoro che dirotta l’incalzante incipit vocale del brano verso figurazioni sonore in bilico, come confermato dalla nostra, tra Morricone e primi Genesis.
A chiudere i giochi l’eterea e suggestiva Above as Below tramuta l’invocazione angosciosa di The Towerin un interrogativo sospeso che lascia aperta la grande partita. Destino amico o ricerca destinata ad un vuoto incolmabile? Quel che è certo è che questo bellissimo disco suona la sinfonia di una possibilità che sta e cade con la vita.