Ci sono gruppi, artisti, che silenziosamente, nel sottobosco di un universo fin troppo affollato, procedono nel loro cammino musicale con discrezione e delicatezza. Non hanno bisogno di indossare abiti firmati all’ultima moda o di tagliarsi il capello in modo trendy per apparire credibili. Semplicemente, fanno musica. Quello che dovrebbe fare un musicista, invece di predicare i massimi sistemi come si usa oggi.
I Rusties, di Bergamo, hanno una carriera ventennale, cominciata come cover band di Neil Young (tra le più apprezzate d’Europa), cosa che li ha portati a firmare ed eseguire insieme allo scrittore/giornalista Pier Angelo Cantù il più bel spettacolo (attenzione, non un tributo) rock che si sia visto sui palcoscenici italiani: Waterface, in cui si racconta tra parole e musica un periodo particolare del loro amato Neil Young.
Ma intanto hanno intrapreso altre strade, cominciando a scriversi i brani e approdando con “Dove osano i rapaci” al disco della maturità.
Coraggiosamente cantato in italiano, è un disco di purissimo rock italiano, come, ironia, in Italia fanno in pochi. Brani che ricordano i momenti migliori di certo prog italiano anni 70 (bravissimo il tastierista Massimo Piccinelli) con cambi di atmosfera, crescendo vorticosi, lunghi spazi musicali, ma anche ricordando la nostra migliore canzone d’autore.
Dietro, dal punto di vista compositivo, soprattutto Marco Grompi, anche chitarra solista, autore della maggior parte dei pezzi, e Osvaldo Ardenghi, straordinario attore (“cantatore” si definisce lui) cresciuto alla scuola di Enzo Jannacci. Ma non vanno dimenticati il già citato Piccinelli e la sezione ritmica, elegante e incalzante, costituita dal bassista Fulvio Monieri (che firma e canta anche un paio di brani) e il batterista Filippo Acquaviva.
Colpiscono anche i testi, decisamente sopra alla media. Canzoni di rabbia e nostalgia, come l’iniziale title-track, il rimpianto di giorni in cui pensavamo di cambiare il mondo (e magari invece il mondo ha cambiato noi), ma ma in cui rimane accesa una luce di speranza in fondo al tunnel: resistenza.
I temi trattati sono coraggiosi, mai si ha l’impressione si voglia imporre una visione, piuttosto raccontare la realtà: “Queste tracce” parla della violenza sulle donne, mentre “Pezzi di carta” di chi si laurea e non trova un futuro a casa sua. Particolarmente toccante “Un uomo onesto” il cui testo è ispirato a uno scritto di Nico Atzori, brano di ispirato vigore la title track, dove ogni strumentista si mette in evidenza, ma non c’è un brano minore e il disco cattura dall’inizio alla fine, senza mai stancare, anzi aprendosi a continue scoperte.
E’ un lavoro corale, dove le voci dei vari protagonisti si alternano, si uniscono, le chitarre elettriche sprizzano energia e assoli lunghi e pastosi, quasi meditativi, la musica scorre creando atmosfere di piacevolezza, un suono originale che fa rima con intelligenza.
Non è poco di questi tempi.