Stasera ad esempio non ho voglia di scrivere nulla. Ormai ogni settimana che passa da qualche tempo a questa parte qualcuno se ne va. Se ne va un pezzo di noi, della nostra gioventù, dei nostri sogni, quei “Dreams” che loro avevano musicato così bene. Questa sera vorrei essere Jon Landau che scrive di aver visto il futuro del rock’n’roll, invece ormai non sono più giovane e il rock’n’roll lo vedo morire ogni giorno che passa. D’altro canto questa è la vita e chi fu così incosciente nel dire che i sogni non muoiono mai? Questa sera non ci sarebbe dire niente, ma un amico una volta mi ha chiesto quando morirà di scrivergli un bell’obituario, che a me riescono così bene. Forse perché la morte ce l’ho sempre avuta accanto e invece di dire come fanno tutti “non è possibile che sia morto” io ho sempre pensato, “accidenti è ancora vivo”, con gratitudine. Ma stasera non scriverò un obituario. Questa sera racconterò una storia.
Ero in macchina che guidavo verso Como un pomeriggio della primavera del 2002, credo. Suona il cellulare, è un discografico: “Si potrebbe intervistare Gregg Allman, ti va?”. Devo farmi ripetere il nome tre volte perché mi sembra semplicemente impossibile che stia dicendo “quel” nome. “Ovvio” riesco a dire alla fine “sono già pronto adesso”. Penso che la Allman Brothers Band non è neanche mai venuta una volta a suonare in Italia da quando esistono, e cioè dal 1969 e non riesco ancora a crederci.
Penso alle parole di uno scrittore americano, Don De Lillo, che una volta disse che “il loro suono è talmente americano come il rumore dei condizionatori d’aria fuori delle case di mezza America”.
Già, loro sono l’America: come The Band, come i Grateful Dead, la divina trinità del suono americano. La capacità di incarnarne ogni angolo, ogni risvolto, ogni piega, ogni umore, ogni sospiro e ogni dolore: jazz, folk, country, rock, blues, soul. E farne una miscela esplosiva. Come quel loro doppio album uscito nel 1971, “At Fillmore East”, semplicemente il più grande disco dal vivo mai pubblicato perché loro sono stati semplicemente la più grande live band di tutti i tempi, dove torrenziali improvvisazioni, come se avessero cercato di infilare Miles Davis in una chitarra elettrica, esplodono nel fragore di due batterie, un basso che pompa come un bulldozer inventandosi scale impossibili, due batterie che alzano il suono al cielo, un organo Hammond e una voce, la sua voce, la più bella voce bianca che abbia mai canatato il blues, quella di Gregg Allman, e pensi, questi non avevano manco 25 anni e suonavano da dio. Roba da pazzi.
“Tutto comincia col blues” mi dirà Gregg Allman in quella telefonata “da ragazzino nella mia via abitava un vecchietto di colore, invece di andare a giocare con i miei amici mi sedevo per terra davanti a lui e lo ascoltavo cantare il blues. Fratello, il blues è tutto, il blues è l’anima di ogni cosa”.
Per tutta l’intervista mi chiama “bro'”, fratello, come si fa nel vecchio sud. D’altro canto la sua band era quella dei fratelli Allman, Duane morto giovanissimo nel 1971 in un incidente di moto, e poi rimasta in mano a lui, tra alti e bassi.
Gregg Allman è morto oggi a 69 anni, era malato da tempo, trapianto di fegato e quant’altro, polmonite, fisico debilitato. D’altro canto aveva vissuto gran parte della sua vita nella corsia di sorpasso, cocaina in dosi monumentali, e alcol. Raccontano che una volta, quando era sposato con Cher, si trovava a un importante party a Los Angeles così fatto di cocaina che finì per addormentarsi con la testa nel piatto di spaghetti.
Ma questo è niente: per non finire in galera non esitò a denunciare gli uomini della sua crew, tirandosi fuori dei guai facendo in pratica la spia. Fu allora che gli altri fratelli della band dissero che non avrebbero più continuato a suonare con lui. La sua vita è stata come unn film noir, un racconto di Raymond Chandler attraverso ogni strada d’America, una sfida alla morte continua, in fondo lui era il Midnight Rider della sua omonima belissima canzone, ma lui poteva permetterselo: era bello come un dio, alto e quei capelli biondi lunghissimi fino alle spalle, il successo, l’adorazione dei fan e delle fam, la voce sexy e romantica meravigliosa.
Ma adesso che parliamo al telefono e mi sente tossire mi dice: “Che cazzo fai, fratello? Smetti di fumare quella merda, io ho smesso di fumare e di bere e ti giuro che non sono mai stato così bene, nessuno entra nel mio camper quando siamo in tour se ha una sigaretta accesa. Fuori chi ho messo anche un cartello”.
E io che pensavo di parlare con un fuorilegge del rock, e poi continua a chiamarmi fratello e io mi commuovo. Ride sgangherato e parla di tutto e di niente: “Guarda si è messo a piovere, qui a Macon viene sempre a piovere, ma la vita è bella fratello”.
E’ felice, ha un disco nuovo della sua band pronto a uscire a giorni, ne è entusiasta: “Lo abbiamo registrato a Hoboken nel New Jersey” dice. “Hoboken” dico io ” la città di Frank Sinatra? Come mai siete finiti in quel buco a registrare?”. Scoppia a ridere: “Hai ragione fratello, fra proprio schifo ma dovevamo cambiare aria”.
Per oltre 45 anni la band dei fratelli Allman è andata avanti a riprese perché come dei fratelli si sono lasciati e ripresi: storie sordide di droga, galera, litigate furiose, poi di nuovo insieme. Avete presente il bellissimo film “Almost Famous” di Cameron Crowe, la storia – vera – di questo ragazzino che diventa giornalista e viene mandato a seguire una band in tour, e gliene combinano di tutti i colori. Be’, il chitarrista della band che il ragazzino cerca disperatamente di intervistare per tutto il film, è Gregg Allman, erano loro nella vita vera che lui doveva raccontare sul giornale. Quando uscì il film Gregg commentò: “Certo che gliene abbiamo combinate a quel ragazzino eh?”. D’altro canto Gregg per evitare di finire in Vietnam a fare la guerra, si era sparato a un piede. Un tipino a cui non avvicinarsi troppo.
Se la musica rock ha avuto un momento di apice, di gloria, di reale uscita dal mondo reale e di fuorilegge, di bellezza e onestà assolute, di eccessi, di pazzia e di musica straordinaria, sono stati gli anni 70, e di quel decennio l’Allman Brothers Band incarna tutto. La decadenza e la bellezza, la vittoria e la sconfitta. Nel 1973 si tiene il concerto con il maggior numero di paganti della storia del rock: 600mila persone a Watkins Glen nello stato di New York, e sul palco proprio quella triade: The Band, Grateful Dead e Allman Brothers Band.
Per poi rinascere come un’araba fenice e macinare musica fino a pochissimi anni fa. Dal 1989 al 2014 tengono, in una residenza annuale di circa due settimane, 238 concerti al Beacon Theatre di New York, che diventa l’appuntamento fisso per migliaia di fan di tutto il mondo, e loro che continuano a dare sempre il massimo, anche quando se ne va lo storico chitarrista del Fillmore East, Dickey Betts, dopo l’ennesima litigata con Gregg: “No, “quello” non c’è più con noi” mi dice al telefono senza citarlo mai “troppe stronzate troppo ego, a me interessa la musica non l’ego delle persone”.
Loro erano uomini del sud, Macon. Georgia, profondo sud, e si presero la briga di sponsorizzare la campagna elettorale di uno di loro, un democratico, dopo l’incibo Nixon, Jimmy Carter, loro concittadino. E lo aiutarono con una serie infinita di concerti di beneficenza a entrare alla Casa Bianca.
Una vita che chiede un prezzo ovviamente, anche se cerchi di metterti in pista ripulito: “Quando salgo sul palco con un mal di denti, stai sicuro che appena la musica comincia mi passa”, dice. Poi gli anni e i gli eccessi accumulati chiedono il prezzo da pagare.
La Allman Brothers Band aveva sempre avuto la morte accanto, come una storia gotica di quel loro vecchio sud, alla Flannery O’Connor, peccato e redenzione, satana al crocevia: la morte a pochi mesi di distanza, nello stesso esatto punto, prima di Duan Allman e poi del bassista Berry Oakley un anno dopo tutti e due in motocicletta. Un anno fa si era suicidato per debiti uno dei due batteristi. Butch Trucks. E adesso con lui la storia è finita per sempre.
“La vita è bella, fratello, guarda sta piovendo”. Gli dico, Gregg ma io sono in Italia che ne so se lì piove. Ride di brutto: “Hai ragione fratello, ma prova ad ascoltare: senti la pioggia sul vetro?”. Ma in Italia a suonare ci verrete mai prima o poi? No non ci sarebbero venuti. Nel 2007 lui da solo suonò al festival di Pistoia, l’altra data prevista a Milano fu annullata per scarsa prevendita di biglietti. Non ho mai odiato tanto il mio paese e i miei compatrioti.
Adesso è tardi, è notte, ma non ho sonno. Ho il cuore spezzato perché ormai siamo agli sgoccioli, la più bella avventura del Novecento sta chiudendo il sipario. E lui nonostante tutto era un uomo buono: uno che sa cantare così non può essere cattivo. Metto su At Fillmore East, ascolto la sua Whipping Post con quella poderosa intro di basso, un pezzo così celebre che negli anni 70, per far incazzare i musicisti, la gente la richiedeva anche ai concerti di Bruce Springsteen. Oppure chiudo gli occhi e sento Melissa, e tutta la dolcezza di quel sud, di quelle piantagioni, di quelle ville, di quella gente vera e orgogliosa me la immagino. Sotto alla pioggia di Macon, ovviamente.
Addio bro’, e adesso che hai ritrovato Duane in paradiso, “eat a peach” mi raccommando.