Paolo Jannacci non è solo il figlio di Enzo, probabilmente il massimo autore di canzoni del 900 italiano, è anche un jazzista sopraffino. Il suo strumento è il pianoforte (“Bill Evans è tra i pianisti che amo di più” dirà nel corso della nostra intervista) ed ha appena pubblicato un disco di jazz purissimo e moderno, “Hard Playing” in cui insieme ai suoi abituali accompagnatori (Stefano Bagnoli batteria; Marco Ricci contrabbasso; Daniele Moretto tromba) mette in mostra tutta la sua classe. Ma non ama le etichette: “Il jazz non è musica colta, non è musica per pochi. Tutto dipende da quello che riesci a trasmettere e da come ti lasci coinvolgere. Non sopporto le etichette”. Ed è per questo che Paolo Jannacci in queste settimane si trova in tournée con la coppia J-Ax e Fedez, due musicisti che dovrebbero essere agli antipodi del jazz: “Mi piace sperimentare, mi piace cambiare le carte, ascoltare cose nuove e diverse”. Giocare con la musica, con lo stesso spirito del papà, “se la musica c’è la cantiamo anche in tre (massimo quattro)”. Qualche problema?
Approcciare un disco come questo, jazz, è un po’ come approcciare la classica. Siamo nel campo della “musica colta”. O no?
Non sono per nulla d’accordo. Se sei “colto” magari capisci determinate sfumature, determinate sottigliezze. Ma anche se non si è studiato musica ci si accorge subito quando una cosa piace, ti dà energia, funziona oppure no. E’ come guardare un quadro, se guardi una crosta o un Monet, sei in grado di dire quale dei due ti piace anche se non hai studiato pittura.
D’altro canto attualmente sei impegnato in tournée con J-Ax e Fedez, che non fanno certo musica jazz.
Non ci devono essere limitazioni nell’ascolto dei generi musicali. Sono stato io a chiedere ad Ax se potevo suonare con loro, lui mi ha risposto: se ti sta bene perché no. Questo perché ho voglia di sperimentare sempre, di rimettermi in gioco, di ascoltare idee nuove.
No alle etichette?
Assolutamente no. Quando ascolto i Rolling Stones dico cavolo che botta. Poi magari ne ascolto tre canzoni e dopo mi metto ad ascoltare Bill Evans, ma è sbagliato etichettare e creare ghetti.
A proposito di Bill Evans, nel tuo disco c’è un suo pezzo, You Must Believe in Spring, una delle ultime cose che ha inciso prima di morire. Come mai hai scelto proprio questo brano?
Bill Evans è tra i miei musicisti preferiti, è un pianista a 360 gradi che esprimeva se stesso con la sua musica. Aveva qualcosa di speciale nel modo in cui interpretava armonicamente i brani con una sensibilità particolare, qualcosa che nel jazz è fondamentale. Capire cioè fino a che punto puoi collocarti in determinati situazioni e dinamiche.
Ecco la differenza “tra musicista colto” e ascoltatore normale, saper cogliere certi aspetti…
Diciamo che del suo repertorio il brano che ascoltavo di più era questo. L’ho studiato molto a lungo insieme ad altri di quel disco (dal titolo omonimo, uscito nel 1980, ndr), ad esempio il pezzo di apertura, B Minor Waltz. A un certo punto ho desiderato capire meglio, l’ho suonato con Luca Meneghello alla chitarra, poi l’ho fatto dal vivo e alla fine ho deciso di fissarlo su disco.
E’ una versione molto bella quella che hai fatto, ha un mood quasi cinematografico.
Grazie! Tutto il disco vuole essere proprio questo. Nel mio cd precedente, “Allegra”, pensavo di aver fatto un buon lavoro, ma riascoltandolo oggi mi sembra molto acerbo. Mi rendo conto di essermi bloccato sul come farlo, e su come la gente poteva ascoltarlo. E’ stato tutto molto studiato, e anche se il risultato alla fine è bello lo stesso, adesso lo sento un po’ affettato, costruito.
Qua invece tutto suona spontaneo e con molta emozione.
Pensa che lo abbiamo registrato in salotto!
Cosa intendi con il titolo del disco, “Hard Playing”, che suonare è difficile? Che costa fatica?
Non esattamente. Volevo fare qualcosa di pungente, armonicamente più duro. In tutto il disco c’è molta sperimentazione, è questo il senso del titolo.
Tra l’altro il brano che intitola il cd è molto particolare, una autentica battaglia a colpi di pianoforte e tromba, come è nato?
E’ nato quasi per caso durante le prove. Ho chiesto al fonico di registrare ed è venuta fuori questa cosa qua. Dal punto di vista armonico è una cosa abbastanza difficile da fare. Purtroppo qualcuno a inizio del brano ha fatto cadere un leggio e così ho dovuto tagliare un pezzo, ma alla fine sono soddisfatto di quello che è uscito fuori.
Nel disco c’è un’altra cover, Who Can I Turn To, un pezzo che hanno inciso dozzine di cantanti, la versione più famosa è senz’altro quella di Tony Bennett. Ti sei ispirato a quella?
Questa canzone me la fece conoscere il mio prof al Conservatorio, mi folgorò subito anche per i modi in cui si può interpretare. La feci per la prima volta una sera a Zelig, quando la trasmissione si interrompeva per mandare in onda la pubblicità. Quella sera il super ospite era mio papà e la dedicai a lui. Per qualche anno poi è rimasta nell’oblio e adesso con Daniele (Moretto, ndr) l’abbiamo ripresa e ci è piaciuta tanto, così l’abbiamo rielaborata e incisa.
Il disco contiene anche un dvd, “Concerto per Enzo”. Di che serata si tratta?
E’ un concerto fatto al Carroponte una sera d’estate, la prima volta dove canto e registro quello che canto, una serata dedicata al papà. Ho reputato che fosse venuta fuori una bella serata, che fosse giusto cantare quelle canzoni, il concerto ebbe molto successo, c’era una bella atmosfera. Mi permette di mantenere vivi i brani del papà e ci divertiamo a farli e a farli conoscere ai giovani.
Qual è il pezzo di tuo papà che ti diverti di più a fare in concerto?
Direi L’Armando soprattutto perché faccio sempre un gran casino con quel pezzo. Siccome mentre lo eseguo, canto, recito e faccio il matto, quella sera sbagliai i versi saltando una strofa e arrivando subito al finale, roba tipo quando racconti una barzelletta dicendo subito come va a finire.
Adesso presenterai il disco in tour?
Finisco il tour con Ax e Fede, poi il 26 aprile lo presento alla Feltrinelli a Milano in Piazza Piemonte. Poi lo porterò in giro insieme al Concerto per Enzo dove almeno due pezzi miei li faccio sempre e questa volta ne farò di più. Sono pronto: quello che mi chiedete io faccio…
(Paolo Vites)