“Se avessi studiato con più convinzione sarei un avvocato di quelli che mandano in galera i ruba galline. Invece sono un belinone da palcoscenico…”, dice Fabrizio De André terminando uno dei suoi ultimi concerti nel 1997. Anche chi scrive deve ironicamente giustificarsi da belinone sul ritardo di questa seconda puntata di questa introduzione analitica del monumentale cofanetto “I concerti” del cantautore genovese. In effetti non ci sono scuse, ma la motivazione è una sola: ho provato ad ascoltare tutti i sedici cd compresi nel boxset. Proprio tutti. Una fatica ripagata.
Come avevamo già detto il box contiene per intero otto concerti che coprono l’arco delle esibizioni del cantautore ligure, ognuno in due cd: il “mitico” esordio alla Bussola e il post con i New Trolls ’75-76; il tour con la PFM, ’78-79; L’indiano, ’81-82; Creuza de Ma, ’84; Le nuvole, ’91; In teatro ’92-93; Anime salve, ’97; Mi innamoravo di tutto, ’97-98. Tanti suoni, tante parole, come già detto, tanti commenti, tante presentazioni e spiegazioni che aiutano a capire sempre più e sempre meglio il De André uomo. Ma soprattutto dentro a questa raccolta c’e tanta musica: dolcezza e anarchia, cinismo e ostentazione, calore e romanticismo, umanità e furbizia, rivoluzione e pacatezza, divertimento e ritmo, sole e notte, sangue che scorre e tanto fumo, alcol e utopie.
Mettiamo un po’ di ordine nel colossale prodotto discografico. Il doppio cd d’esordio ha una qualità sonora sufficiente, ma fa un effetto entusiasmante, sia perché De André, seppur quasi goffo in certi momenti, ha sufficiente spigliatezza ed è spinto da una band con i fiocchi (Belloni, Belleno e il resto dei genovesi suonavano come maestri). In questo senso c’è da dire che band pazzesche e musicisti eccelsi sono la costante di tutto l’excursus deandreiano: New Trolls, PFM, Pagani, Bubola, Ascolese, Bandini, Cordini, Harris. Gente varia che rende il cd del tour del ’78 (De Andre & Premiata Forneria) una magica irruzione di arrangiamenti inattesi (bello vedere che dopo questa collaborazione con Mussida e compagni canzoni come Il pescatore vivono di vita nuova e rimangono anche nel tempo successivo legate a questo geniale periodo), quello dell’Indiano un torrenziale viaggio nel folk-rock, quello dell’84 un capolavoro del suono multietnico, quello successivi un alternanza di equilibrio, intimismo, sensibilità colta.
Difficile e forse inutile dire quale siano i concerti migliori, ma ci provo lo stesso: a mio parere L’Indiano e Mi innamoravo di tutto sono le perle. Il primo perché (nonostante registrazioni non certo super perfette) ha un groove mostruoso, grintoso, senza fronzoli, diretto e selvaggio: si senta solo l’attacco di Bocca di rosa, il ritmo sostenuto di Giugno 73 o la veracità di Avventura a Durango. In scena con Faber ci sono Bubola e Pagani, Lele Melotti e Mark Harris, Tony Soranno e Claudio Pascoli e la temperatura è torrida: basti l’attacco dello show con Quello che non ho a dare la sensazione di un treno che si mette in corsa, passionale e american bound come un Greyhound.
Dal canto suo Mi innamoravo di tutto è il tour della pulizia e dell’equilibrio, del tutto che funziona come in un orologio di precisione dietro a quella voce immensa e inequivocabile capace di passare da Creuza de Ma a Fiume Sand Creek passando per Le acciughe fanno il pallone che pare una macumba acustica mentre la trascinante e tesissima Disamistade depone lacrime di civiltà sul suo passaggio. In quest’ultimo tour, poi, De André aveva riportato fuori dagli archivi La buona novella (che Faber racconta più o meno così: i miei coetanei la credevano anacronistica, ma io sentivo il paragone tra le istanze più giuste del movimento ’68 e simili istanze sociali di un signore di 1968 anni prima che si chiamava Gesù di Nazaret), interpretando soprattutto una versione micidiale del Testamento di Tito (“di fronte a tutti miei peccati non mi pento, ma di fronte a quest’uomo che muore io ho imparato il dolore”), più bella di quella pur efficace che c’è nel primo disco, quello registrato alla Bussola. Ma così il tempo finale si ricongiunge con quello iniziale e si chiude il cerchio ideale su una produzione vasta e multiforme.
E gli altri concerti? In ognuno ci sono delle chicche. Nelle Nuvole c’è finalmente quella impressionante canzone sull’ipocrisia generazionale che è Ottocento e una versione pazzesca di Domenica delle salme, con il violino di Mauro Pagani che taglia l’aria molto più di una sega elettrica. Il tour di Creuza de Ma è quasi un capitolo a se stante, così insolito, così apripista e lungimirante: personalmente non lo amo alla follia, ma da quel momento in poi anche la musica italiana ha scoperto di avere un tesoro in casa e di poterlo lucidare per abbellire di cose antiche il proprio presente. Va da se che anche La guerra di Piero o Franziska qui assumano aromi insoliti e inediti. Nei concerti di In teatro c’e una grandissima ripresa de Il gorilla di Brassens con un funambolico arrangiamento franco-appenninico, una micidiale Don Raffae, ma soprattutto una commovente versione de La guerra di Piero con una fuorviante intro pianistica di Martellieri. Nel doppio cd della tournée di Anime salve svetta per maestosità l’impressionante set-finale: Hotel Supramonte, Don Raffae, Andrea, Marinella, Fiume San Creek, canzone mai abbandonata, sempre amata e continuamente ricordata come una di quelle che fanno la “differenza culturale” tra Faber e gli altri.
Le canzoni del boxset sono oltre duecento. Quali sono le più belle tra le belle? Che nuova domanda ingombrante! Pezzi come La cattiva strada e Quello che non ho, Ho visto Nina volare e Sidun, Via del Campo e Via della povertà (la traccia fantasma che chiude il secondo cd della prima tournée riporta la canzone eseguita a Brescia con i nomi dei politici di allora, Almirante, Berlinguer, generali e monsignori….), Giovanna d’Arco e Verranno a chiederti del nostro amore, Canzone del maggio e Volta la carta sono da antologia della canzone italiana, e le ritroviamo in questo cofanetto deluxe in due o tre versioni e interpretazioni, sommariamente sempre simili. Ma tra vecchie preferenze e varie riscoperte direi che la palma delle più emozionanti nello svolgersi del tempo va a queste:
Amico fragile: chissà, forse è il vero capolavoro della produzione di De André; il bello è che la sua struttura sostanzialmente non è mai mutata, dalla prima registrazione con i New Trolls (con Ricky Belloni all’elettrica) alle ultime esibizioni, non toccata neppure nell’era PFM che pure tante idee ha dato all’arrangiamento di brani celebri come Il pescatore o Bocca di Rosa. Nata come reazione schifata e ubriaca ad una serata tra borghesotti in vacanza, la canzone è l’Avvelenata di De André, con gente normale al posto dei giornalisti e degli ideologici nemici di Guccini. Violenta, umorale, tutta basata sull’arpeggio nervoso di una chitarra acustica, Amico Fragile raggiunge sempre l’apice emotivo delle platee, impreziosita ogni tanto anche dai fiati (come nel caso di di Roberto Parisi dal tour di In Teatro).
Giugno 73: una canzone di intensità unica, di gran lunga la (mia) preferita in quel novero di confessioni in intimità che De Andre ha scritto sulle storie d’amore proprie o altrui. L’arrangiamento Djivas-Premoli che per la prima volta si scopre nel periodo di esibizioni con la Pfm rimane costante nel tempo, trasformando in un gioco chiaroscurale quella intro di Volume VIII lasciata completamente ai violini. “E’ stato meglio lasciarci che non incontrarti mai”, dice Faber, e forse nella versione compresa nel tour di Le nuvole lo dice nel modo più efficace e indimenticabile, così nostalgica e dolce-amara nel canto, quanto piena di echi umorali negli arrangiamenti. Roba da brividi.
Smisurata preghiera: elettrizzante e ritmicamente fascinosa in Mi innamoravo di tutto è forse la canzone che sintetizza l’intero percorso artistico di De André, anarchico, ateo, borghese anti-borghese, coltissimo anti-intellettuale, vergognosamente non massificato anche se ormai la massa si conforma e accondiscende a tutto ciò che lui ha detto, scritto, cantato. La direzione ostinata e contraria della canzone, la sua “cattiva strada” è qui quella nella quale quei servi disobbedienti donano alla morte “una goccia di eternità”. Una canzone che conclude tutte le storie e tutta la storia di Fabrizio su quel finale imponente e rasserenante che sa di orchestra, di Piovani, di anticipo di immensità. Una cosa che – volenti o nolenti – si apre sull’infinito. Come fanno molte canzoni di questo lunghissimo e piacevolissimo box.
Ma alla fine di questo lunghissimo ascolto, cosa rimane di quel filo rosso che unisce il De Andre della Bussola a quello dell’ultima stagione di concerti, interrotta per un male incurabile? Cosa ha davvero dato e quale è il suo posto nella nostra storia della canzone?
Figlio di una buona borghesia, cresciuto in una tradizione artistica francese, De André ha rappresentato negli anni in modo quasi paradigmatico il percorso della cultura e della musica italiana. Dalla Francia di Brassens agli States di Dylan e Cohen, passando per Spoon River e per i Vangeli Apocrifi, poi scoprendo una musicalità più raffinata e più passionale, poi scavando nelle vene aurifere del Mediterraneo, di Napoli, del Maghreb, della musica da camera. Altri cantautori hanno creato uno stile, lui ha fagocitato mille stili, godendo del lasciarsi contaminare. E’ più grande di Dalla e Guccini? E’ più profondo di De Gregori? E’ più non allineato di Gaber? Ognuno dia la propria risposta. Ma questi sedici dischi live sono un buon compendio per provare a comprendere che la musica italiana ha dato così tanto, che forse sarebbe ora che alla parola “artista” non venissero più rubricati i fenomeni da classifica, le band pseudo-sensibili e le ignobili accozzaglie di parole finto-colte cantate su un tappeto di suoni inutili. E noiosi.