Mark Kozelek, talentuoso cantautore statunitense, arriva in Italia per alcune date a supporto di “Benji”, il suo nuovo lavoro uscito sotto il monicker di Sun Kil Moon.
La location prescelta per la data milanese, organizzata dai sempre attivissimi ragazzi de Il Cielo sotto Milano in collaborazione con DNA Concerti, è il Biko, circolo ARCI dalla capienza piuttosto ridotta ma ideale per i concerti dall’atmosfera intima come quelli che Kozelek ama mettere in piedi.
Problemi con le forze dell’ordine relativi agli orari del coprifuoco hanno fatto sì che il tutto iniziasse tassativamente per le 20. La cosa ha creato un po’ di disagio inizialmente ma, a seguito delle numerose polemiche legate agli orari di inizio eccessivamente tardi dei concerti italiani, non abbiamo potuto che essere contenti.
Kozelek si presenta sul palco da solo, illuminato da due fari azzurri e così, nel buio di un locale stracolmo e caldissimo, assomiglia davvero ad una apparizione spettrale.
Il musicista dell’Ohio è un tipo tutto particolare, lo si sapeva: non mi stupisco più di tanto, dunque, quando entrando nel locale vedo cartelli che intimano di non registrare, di non scattare foto e di tenere i cellulari rigorosamente spenti. Un’intimazione più adatta ad un teatro che che ad un posto come il Biko ma non si può dire che non funzioni: il pubblico è composto e silenziosissimo, la maggior parte si è seduta per poter vedere qualcosa nonostante il palco molto basso e in generale la performance viene seguita nel più assoluto silenzio, rotto solo da applausi scroscianti tra un pezzo e l’altro. Una cosa veramente rara a vedersi, soprattutto dalle nostre parti, e che contribuisce a rendere quello di questa sera un evento unico.
Da parte sua, Kozelek è in gran forma: suona alla grande la sua chitarra classica, producendosi in brani per nulla semplici da eseguire e ha una personalità magnetica che affascina senza troppi artifici aggiuntivi. La sua voce poi è meravigliosa, struggente, intrisa di sofferenza, dona ai brani una bellezza tetra, cupa, a tratti quasi eterea. Le storie spesso tragiche da lui narrate non tolgono neanche un briciolo di bellezza alle sue composizioni, autentiche gemme che sembrano provenire da un altro tempo.
Un po’ Dylan, un po’ Leonard Cohen, con un carico di tristezza e sofferenza ben maggiore che rivela demoni interiori difficili sia da comprendere che da scacciare.
“Benji” è un disco meraviglioso, che ha confermato il talento nel songwriting evidenziato nei precedenti lavori, unitamente a testi che concedono poco o nulla alla idealizzazione poetica e che gettano in faccia senza troppi complimenti esperienze autobiografiche riguardanti amici scomparsi, donne incontrate, commossi ricordi d’infanzia.
A sentirli narrati direttamente da lui, senza il tramite di uno stereo, queste canzoni fanno ancora di più accapponare la pelle. Come quando in “Carissa” racconta di una seconda cugina, morta in un incidente domestico: la narrazione è cruda, quasi asettica ma proprio in questa crudezza sta tutta la violenza di una morte improvvisa, che lascia senza parole (“Carissa, quando ti ho visto per la prima volta eri una bambina graziosa e l’ultima volta che ti ho visto avevi quindici anni, eri incinta e volevi fuggire. Mi ricordo di aver pensato: ci potrà essere una luce alla fine del tuo tunnel? Ma poi ho lasciato l’Ohio e mi sono più o meno dimenticato di te (…) Ieri mattina mi sono svegliato e ho trovato diverse chiamate col prefisso 330. Ho richiamato mia madre ed era in lacrime, mi ha chiesto se avevo già parlato con mio padre. Carissa era bruciata la notte scorsa in un assurdo incidente. Sua figlia è tornata a casa da una festa e l’ha trovata così. Un aerosol è esploso nella spazzatura, mio dio, quante probabilità c’erano? Carissa aveva 35 anni, non si può crescere due figli, portar fuori la spazzatura e morire così.”).
Oppure in “Richard Ramirez Died Today of Natural Causes” in cui racconta la fine del celebre serial killer, morto nel 2013 prima di scontare la condanna a morte prevista (“Richard Ramirez è morto oggi per cause naturali. Si imbottiva di droga e irrompeva nel case, bastonava a morte la gente, scriveva schifezze sulla loro pelle e le abbandonava lì. Alla fine lo hanno preso ed è finito a San Quentin. (…) E tutti ricordano la paranoia quando si aggirava per le periferie della California del sud. E tutti ricorderanno dov’erano quando finalmente catturano il “Night Stalker” e io mi ricordo esattamente dov’ero, quando Richard Ramirez morì per cause naturali.”).
O in “Dogs”, che è una sorta di catalogo delle conquiste femminili inanellate nel corso degli anni. E proprio al termine di questa canzone avviene un divertente siparietto con una ragazza seduta ai bordi del palco, alla quale Mark dapprima chiede il nome e poi domanda ironico: “Ti è piaciuto sentirmi cantare questa canzone che parla di tutte quelle donne che ho conosciuto?”. Anche se, potete immaginare, la sua domanda non è stata proprio così pulita…
Ma in “Benji” ci sono anche brani commoventi come “I Can’t Live Without My Mother’s Love” (“Mia madre ha 75 anni, un giorno non sarà più qui a sentirmi piangere. Quando verrà quel giorno morirò come un albero di limoni nella neve. Quando verrà il giorno in cui lei se ne andrà non avrò più il coraggio di muovermi tra le sue cose. Con le mie sorelle e tutti i nostri ricordi, non riuscirò a sopportare il dolore e il fardello.”) o “I Watched the Film The Song Remains The Same”, dove dipinge istantanee lucide e toccanti della sua giovinezza, a partire dai ricordi della visione del celebre film concerto dei Led Zeppelin.
Un artista in grado di raccontare e raccontarsi in modo vero e trasparente, nulla da dire. Ma anche una personalità bizzarra ed estrosa, oltre che fortemente carismatica. Gentilissimo col pubblico di Milano (si è profuso anche in numerosi ringraziamenti al fonico e agli organizzatori e ha fatto sorridere quando ha domandato come si chiamasse il posto dove si stava esibendo), non è stato però avaro di insulti all’indirizzo di due ragazze che bisbigliavano tra loro durante una canzone: “Non c’è problema se volete parlare ma andate a farlo in fondo! Così mi deconcentrate!”. Per non parlare delle due o tre volte in cui ha chiesto al fonico quanto tempo aveva ancora a disposizione, reagendo sempre in maniera decisamente entusiasta (“Ancora mezz’ora? Che palle, sono stanchissimo!”).
L’apoteosi si è però raggiunta quando, tra un pezzo e l’altro, ha raccontato di questo suo breve tour italiano, dicendo una cosa del tipo: “Ieri sera ho suonato a Ravenna, una città campagnola, in un posto terribile (chi c’era ha riferito che avrebbe anche minacciato più volte di accoltellare il fonico durante il sound check)”. Come ha giustamente commentato qualcuno, Massillon, Ohio, non è esattamente la capitale mondiale dell’industria pesante. Pubblico in visibilio anche quando ha aggiunto: “Domani invece devo andare in un posto di merda che non ho mai sentito nominare”. Per la cronaca, si trattava di Padova. Che fosse serio o ironico (chi lo conosce bene giura che l’ipotesi corretta sia la prima), non c’è dubbio che un personaggio così, nel mondo della musica, non possa che fare bene. Soprattutto se, come detto in apertura, riesce con la sola paura di una sua possibile reazione, a farci godere un concerto in santa pace, senza gente che ti urla nelle orecchie o ti disturba in continuazione con la luce del suo telefonino.
Ma in ogni caso, ad uno in grado di suonare con tanta e tale intensità, si può davvero perdonare di tutto.
Concerto cupo il suo, nero come un romanzo di Faulkner e non certo adatto ad ogni tipo di palato. Ma è impossibile non rimanerne rapiti, anche solo per un breve tratto. Tante le concessioni al passato, per una setlist decisamente varia che ha spaziato in maniera soddisfacente nel repertorio targato Sun Kil Moon. Difficile scegliere degli highlights ma, se proprio dobbiamo, allora direi che i fraseggi di “Alesund” o la struggente elegia di “Elaine”, con i suoi repentini cambi di atmosfera o ancora la malinconia di “Sunshine in Chicago”, hanno fatto breccia in maniera più profonda nel mio cuore, rispetto ad altri episodi.
Tanti anche gli estratti da “Perils From The Sea”, il disco realizzato l’anno scorso assieme ai The Album Leaf di Jim Lavalle. Tra queste, impossibile non citare l’opener “Gustavo” o la sinceramente autobiografica “Ceiling Gazing”, che descrive l’apatia dei momenti morti vissuti mentre si è in tour.
Alle 22 in punto, come da accordi, saluta e se ne va dopo due ore secche di show. Immediatamente, la musica che esce dalle casse ci annuncia che non ci saranno bis. Ma è giusto così. Ve lo immaginate uno come lui che concede un bis?
Impossibile dire altro di Mark Kozelek: senza vederlo dal vivo non si può capire. Complimenti vivissimi a Il Cielo Sotto Milano, che è riuscito a portarlo da noi. Quando si replica?