Per anni è stato uno dei critici musicali più noti del mondo delle sette note, poi ha spento il suo stereo e si è occupato d’altro, dedicandosi (come lui stesso ha più volte ricordato) alla realtà e non alle sue interpretazioni. John Waters, irlandese di 56 anni, penna d’oro di Hot Press (la bibbia rock di Dublino), a lungo compagno di Sinead O’Connor, amico personale di Van Morrison e degli U2 (di cui ha seguito da molto vicino tutta la carriera), autore di canzoni, musical, libri ed editorialista dell’Irish Time, è da sempre uno dei cervelli scomodi della cultura rock da cui – da anni – è volontariamente lontano. Proprio nei giorni immediatamente successivi agli “anniversari celebri” (Jimi Hendrix e Janis Joplin) e delle mitologie ad essi connessi, Waters ha deciso con questa intervista di confrontarsi nuovamente con il passato e con il presente del rock.
John, lei è critico musicale dagli inizi degli anni Settanta. Cos’era il rock’n’roll per lei quando ha iniziato a occuparsene?
Era qualcosa che riguardava la libertà e in un certo senso è ancora così, anche se è cambiata l’idea di libertà. Quarantanni fa in Irlanda, e un po’ ovunque, vivevamo inscatolati, radicati in forme di vita autoritarie e moraliste ed era ovvio che da qualche parte occorresse rompere gli schemi. Poi finalmente ci siamo riusciti, anche grazie al rock, e ci siamo imbarcarci in un viaggio verso la libertà, ma alla fine questo non ci ha resi realmente felici. Così la musica rock, che una volta era la colonna sonora per una ricerca, è diventata ora una sorta di porta per accedere alle nostre nostalgie.
E per le generazioni più giovani?
I giovani scoprono i grandi periodi del rock e ne apprezzano sia il “suono” che i “significati” su cui le nostre generazioni hanno sviluppato la loro cultura. Significati che prevedono ancora il luogo comune che, ad esempio, i giovani vivono sotto l’assedio della cultura dei “vecchi”, cosa che non è assolutamente vera. Per cui è un bene che i più giovani ascoltino del buon rock, ma la cultura che ne traggono è lontana dalla realtà odierna.
Lei è stato il critico rock più famoso di Hot Press e uno dei più noti d’Europa. Cosa pensa se ripercorre con la memoria quegli anni?
Continua
Io guardo alla mia vita con grande affetto, anche se riconosco tanti errori e tante delusioni. Ovviamente amo ancora la musica e soprattutto mi appassiona leggere grandi articoli su di essa. Ho mantenuto l’interesse per autori come Greil Marcus e Paul Marley, per il modo che hanno di scrivere a proposito del desiderio che è nel cuore del rock. Però so che gran parte della moderna comunicazione musicale è solo frutto della promozione industriale. E, per essere sinceri, molto di quello che ho scritto pure io è stato esattamente questo.
Per molti osservatori dei nostri tempi, il rock è stato uno dei segnali del disfacimento della cultura occidentale. Per altri è stato il coronamento di un’ansia libertaria e per questo è intoccabile. Personalmente credo che la musica rock e pop sia stata una ricerca artistica, magari selvaggia, di significato: che ne pensa lei?
Credo che il rock’n’roll sia davvero la voce profonda del desiderio umano. Ogni essere umano apprende la realtà a modo suo ed è in cerca di segni che gli altri lanciano per comprendere la realtà: il rock’n’roll riesce a farlo pur rimanendo musica leggera, divertimento. Io credo che la reazione negativa verso il rock, soprattutto nei primi due decenni, sia emersa perché sin dall’inizio era chiaro che questo genere musicale poteva esprimere tantissimo ed essere potenzialmente eversivo rispetto allo status quo culturale.
E oggi?
Attualmente il rock purtroppo serve ad assicurare il potere che nulla di significativo e di nuovo sta circolando.
È davvero così drastico?
Sì, ma gli artisti autenticamente grandi, Dylan, Van Morrison, Leonard Cohen, Joni Mitchell, U2, si sono sempre occupati in un’opera di stimolo. Può sempre accadere qualcosa di nuovo e inatteso.
Ma chi è il grande artista rock?
È un essere umano che ha un senso chiaro o profetico delle cose e le comunica a un altro cuore che riceve così attraverso una canzone un significato che non può essere trovato altrove. Un significato che a volte può anche non essere accettato fino in fondo.
Ma il rock è ancora in grado di esprimere qualcosa su ciò che c’è nel profondo dell’animo dell’uomo?
Continua
Può ancora esprimere i desideri più profondi dell’animo umano, ma diventa ogni giorno più difficile, perché c’è così tanto rumore di fondo nel sistema…
A suo parere chi è stato il più grande del rock?
Credo che Dylan sia stato l’interprete più autorevole, ma Van Morrison è indubbiamente il più grande e il suo "Astral Weeks" è il più grande album mai inciso, senza alcun dubbio. Una canzone di quel disco, Madame George è la più sublime dichiarazione ed espressione del mistero della vita che sia mai stata scritta. Ma Dylan potrebbe da un momento all’altro scrivere un capolavoro, mentre Van Morrison ha ormai superato il suo picco creativo.
Tutti i più grandi, dai Pink Floyd a Neil Young, dalla Band a Van Morrison, da Dylan a Cohen, hanno scritto canzoni che ruotano attorno a tre grandi temi: la vita, l’amore e Dio. Oggi questi temi sembrano confinati nell’angolo buio della produzione musicale. Perché?
Perché siamo nell’era della nostalgia, così noi onoriamo il contributo di questi grandi, ma insistiamo nel non comprenderli. Loro vengono onorati esteticamente, ma i loro contenuti sono ignorati perché toccano temi sconvenienti. Gli unici che hanno seguito quegli esempi, sono coloro che rimangono autentici di fronte a certi temi, sto pensando a U2 e Coldplay, le uniche due bands che scavano dentro i grandi temi e non cercano solo di essere conosciute perché fanno un gran casino.
Il rock è ancora interessato alla felicità?
Si, ma la felicità non è più prevista nella cultura che il rock’n’roll rappresenta. Si segue ormai la traccia di band come Rolling stone e Oasis: it’s only rock’n’roll but we like it, cosa che va benissimo. Certo molti artisti continuano a scavare nel profondo, ma tendono a non parlarne, rendendo la loro ricerca solo una relazione privata con il loro pubblico.
Gli Hothouse flowers, una band irlandese, aveva scritto una magnifica canzone che dice “e ogni pianto è una canzone, ed ogni canzone è una preghiera". La preghiera fa ancora parte dell’espressione rock?
L’atteggiamento del rock è oggi profondamento antagonista a Dio, fede, religione e a ogni cosa sia legata a quel significato di umana esperienza che chiamiamo spiritualità. Io sono affascinato dal modo in cui una band come gli U2 sia in grado di ottenere credibilità senza fare segreto di cosa cerchi nel profondo la sua musica. So per certo che Paul Hewson, Bono, è una persona che prega. So anche di tanti altri musicisti lo fanno con convinzione, ma questo è considerato irrilevante o marginale rispetto alla loro vocazione musicale, che è sempre definita di divertimento o ribellione.
Crede sia ancora possibile oggi romanticismo, innocenza?
Continua
Perché no? Se un musicista riesce a riarrangiare i codici con cui è stata espressa una cosa, il feeling è lo stesso che agli inizi; questo accade sempre meno di sovente, ma accade; a me è accaduto ultimamente quando ho sentito per la prima volta i Devotchka.
E la sperimentazione o la ribellione: può ancora esistere dopo sessant’anni di musica?
Certo! Ma questi valori sono un po’ contraffatti, perché spesso sono creati per la immaginazione nostalgica. La rivoluzione nel presente sembra debba essere come quella del ’68, così i veri rivoluzionari di oggi sono tacciati come reazionari….
Nei giorni scorsi si è celebrato il 40esimo anniversario della scomparsa di Hendrix e della Joplin. Cosa pensa delle mitologie rock e di queste sue icone?
Credo che Jimi e Janis siano sorti perché quello era un periodo di grandi promesse, di enorme sete, di appetiti magari esagerati e forse anche malsani. Hendrix si creò una reputazione che era per lui probabilmente impossibile sostenere senza morire. La sua morte ha approfondito e reso eterno il suo mistero, ma in un modo che non ha dato risposte. Con la sua scomparsa siamo stati un po’ tutti oggetti di un imbroglio, detto con una certa ironia e un certo rispetto.
È certo che Hendrix è arrivato con una forza e un desiderio di espressione mai visti, si è imposto con una furia che non poteva essere canalizzata. Ma, secondo me, il problema reale riguarda il modo con cui sono raccontate queste storie, cioè quasi sempre come tragedie eroiche: la stella luminosa che brucia e si distrugge troppo presto.
Beh, questo fa proprio parte dell’immaginario del rock…
Ed è ciò che mi dà più fastidio, perché è un messaggio pericoloso da dare ai giovani che vedono solo la tragedia e non capiscono il desiderio e il dono e la natura dell’incomprensione che porta al disastro. Un biografo di storie e personaggi musicali, Albert Goldman, ha scritto alcuni libri, tra cui quello su Elvis e quello su Lennon, che essenzialmente distruggevano le loro mitologie. Quando sono usciti i suoi volumi, lo odiavo e di certo Goldman ha scritto alcune cose impietose, ma ora non sono più così sicuro che il suo istinto si sbagliava…