La parata di poliziotti e carabinieri con il mitragliatore stretto fra le mani sembra uscire da quel vicolo della desolazione che il cantante che stiamo andando a sentire ha cantato tante volte. Fa davvero impressione trovarsi in una lunga colonna che procede lentamente verso l’ingresso con quella scorta armata fino ai denti: è guerra. La spensieratezza di un concerto svanisce mentre procedi a piccoli passi e non puoi pensare che in un teatro simile una settimana fa esatta tanti come te sono morti ammazzati durante un concerto. I controlli uno a uno, con il metal detector, le borse aperte e scandagliate a fondo, i computer lasciati forzatamente agli uomini armati all’ingresso: è guerra.
Dentro per fortuna l’atmosfera cambia, e quando le luci si spengono e le prime note delle chitarre al buio si spargono nella sala comincia un applauso all’inizio timido perché ancora congelato dai pensieri di prima. Poi sempre più forte mano a mano che nella penombra i musicisti raccolgono i loro strumenti e infine diventa un boato di liberazione, potente, selvaggio, ininterrotto quando la figurina esile di Bob Dylan prende il suo posto. Sembriamo dire: ce l’abbiamo fatta, siamo vivi, e lui è qui con noi, che lotta e piange con noi.
Da quel momento alla fine tutto il concerto è racchiuso dal brano che lo apre a quello che lo chiude, come due profezie, come due implacabili maledizioni, come quel senso di umanità follemente incomprensibile che è la cifra stessa delle canzoni di Dylan. “People are crazy and times are strange I’m locked in tight, I’m out of range I used to care, but things have changed” sputa fuori quasi con disprezzo nell’iniziale Things Have Changed. Canzone vincitrice di un premio Oscar, scritta nel 2000 ancora prima degli attentati alle Torri Gemelle, contiene tutta l’inquietante e misteriosa capacità profetica del suo autore: “La gente è pazza, i tempi sono strani, sono ingessato qui, sono fuori vista, una volta me ne importava ma adesso le cose sono cambiate”. Il senso però questa volta sembra diverso: non è più lo sprezzante annuncio di chi ha rinunciato a vivere perché la vita è diventata incomprensibile e si chiama fuori. Adesso è quasi il lamento di chi chiede perdono per non essere stato capace di cambiare il mondo e se stesso.
La chiusura della serata è invece un potente, elettrico, sferzante canto di un amore che fa male, troppo male, tanto da non poterlo più reggere: “I’m walkin’ through streets that are dead Walkin’, walkin’ with you in my head My feet are so tired My brain is so wired And the clouds are weepin’. Did I hear someone tell a lie? Did I hear someone’s distant cry?”. Cammina per strade che sono morte (o piene di morte) con il pensiero di lei nella testa, le nuvole piangono lacrime: ho sentito qualcuno mentire? Ho sentito un pianto lontano? “I’m sick of love”, sono stanco dell’amore, “Just don’t know what to do I’d give anything to Be with you” , non so più che fare, darei qualunque cosa per essere con te, perché anche se questo amore mi fa male, rimane dentro di me, è più forte di me, ,mi ha consegnato a te per sempre. E’ un urlo di dolore che sembra venire da qualunque delle persone che hanno perso qualcuno per le strade (piene di morte) di Parigi.
In mezzo a questo inizio e questa fine c’è il solito vagabondo solitario attorcigliato nel blu, l’ebreo che dialoga con il Mistero, il predicatore cieco di Flannery O’Connor mentre noi siamo tutti un po’ come Hazel Motes e da quelle canzoni che non cambiano più in scaletta da anni escono fuori i personaggi della saga epica americana, le città, i fiumi, i giocatori d’azzardo, gli eroi con il cuore spezzato che ormai conosciamo così bene, tanto che Dylan può permettersi di eseguire la prima strofa di Tangled Up in Blue esattamente come l’aveva incisa su quel capolavoro di ormai quarant’anni fa. Fa passi di danza sconnessi ma divertiti, si sistema il bavero della giacca neanche fosse un gangster da quattro soldi di Little Italy, ammicca e muove le gambe come Charlie Chaplin: è Mr. Bojangle, è Al Jolson che questa sera non si è dipinto la faccia da finto nero.
Ma i momenti più sublimi, toccanti e commoventi arrivano quando interpreta alcune canzoni del repertorio di Frank Sinatra, che poi significa il grande Songbook della canzone americana, quella antecedente la nascita del ock’n’roll. La pedal steel alzata a un volume che copre anche le chitarre elettriche ci conduce dentro a una dance hall degli anni quaranta, da qualche parte tra Broadway e la Costa dei Barbari a San Francisco, possiamo quasi vedere Humphrey Bogart sconsolato nella penombra dialogare con Lauren Bacall, la voce dell’uomo anziano che oggi è Dylan, reclama a sé brani di una struggimento quasi insostenibile fatti di senso di perdita ma anche di desiderio incancellabile: What’ll I Do, I’m I fool to want you, The night we call it a day, All or nothing at all. Non è abbastanza.
Prima dei bis infatti canta Autumn leaves, le antiche foglie morte di Prevert che in origine faceva così: “Le foglie morte cadono a mucchi e come loro i ricordi, i rimpianti Ma il mio fedele e silenzioso amore sorride ancora, dice grazie alla vita ti amavo tanto, eri così bella Come potrei dimenticarti Com’era più bella la vita e com’era più bruciante il sole Eri la mia più dolce amica… Ma non ho ormai che rimpianti E la canzone che tu cantavi la sentirò per sempre”. Il teatro Arcimboldi grazie a quella voce che diventa di una intensità sconfinata, non triste, ma piena di malinconia (perché è diverso se qualcuno se n’è andato, se invece nessuno è mai venuto: la sua presenza è destinata a rimanere per sempre) si squarcia e sopra di te c’è il cielo di Parigi con il suo dolore, ma un dolore purificatore e salvifico. Come quello dell’uomo che ha perso la moglie al Bataclan, e rimasto da solo, padre di un bambino di pochi mesi, ha detto agli assassini: voi non avrete mai il mio odio. Come Prevert, nonostante ill dolore, ha potuto dire “grazie alla vita”. Quelle foglie non sono più morte, adesso, vivono una nuova vita. “Since you went away The days grow long And soon I’ll hear Old winter’s song But I miss you most of all My darling When autumn leaves Start to fall” è la canzone che Dylan ha preso in prestito da Nat King Cole, Yves Montand, Sinatra e tanti altri. Mi mancherai amore mio ogni volta che le foglie dell’autunno cominceranno a cadere, ma non ti ho perduta. Ci sei, misteriosamente ci sei ancora. Fuori del teatro quando usciamo si è alzato un vento gelido che sta spazzando via le ultime foglie di autunno dagli alberi di Milano. Il dolore di quell’uomo che ha perso la moglie è il suo e il nostro e il cantante sul palco questa sera vi ha reso omaggio e testimonianza.
Postilla: a notte fonda, per le strade di Milano nei pressi del Castello Sforzesco, qualcuno ha incontrato una strana coppia, un tizio allampanato che sembrava quasi un attore hollywoodiano e un piccoletto con il cappuccio della felpa in testa, una specie di barbone. Stavano entrando nell’ultimo bar aperto, mentre le foglie d’autunno cadevano dagli alberi su strade morte. Timidamente si sono avvicinati e hanno riconosciuto il tizio che solo un paio d’ore prima cantava sul palcoscenico degli Arcimboldi e il suo chitarrista. Walkin’, walkin’ with you in my head…