Intanto è un album doppio. In tempi in cui si fa fatica a venderne uno, lui ne fa due. Ma un artista che vuole esprimere davvero quello che gli preme se ne infischia dei meccanismi commerciali. Quindi i cd sono due, e per di più con due libretti ricchi di note, avvolti in un foglione A3 ripiegato ad arte, che aperto diventa un mini-poster, da una parte completamente nero, e dall’altra con una foto di Capossela che scende un crinale scosceso e polveroso. Polvere e ombra: queste sono le due suggestioni, i due temi, i due assi portanti dei due album. Polvere, il lato esposto al sole, lavoro e sudore. Ombra, il lato lunare, dei richiami religiosi e delle bestie fantastiche che riempiono l’ombra stessa.
Man mano che mi inoltro capisco che è un lavoro difficile da raccontare. Anzi, inizialmente urticante, fastidioso. Dal primo solco – se esistessero ancora – si capisce che questo lavoro ha radici molto lontane.
La voce vuole appositamente apparire sgraziata e cantare le Femmine che raccolgono il tabacco e Il lamento dei mendicanti come potrebbero essere stati cantati cento o cinquecento anni fa. È un disco temporalmente incerto, fatto oggi (per la verità nell’arco di un decennio) ma che non appartiene all’oggi. Appartiene a – e racconta di – paure, ambienti, personaggi che affondano le radici nel passato, prendendo come humus l’Alta Irpinia, regione natale del padre di Capossela, in cui affondano miti, riti e storie raccontate. Ma potremmo essere nel profondo Friuli o in Louisiana e sarebbe sostanzialmente lo stesso, tanto che nella narrazione musicale artisti folk italiani come Giovanna Marini, Enza Pagliara o Antonio Infantino si fondono con la band texana dei Calexico, La Banda della Posta, fiati Mariachi, ed altri artisti di provenienze diverse in un crogiuolo di stili affascinante e variegato.
I canti tramandati per decenni e raccolti da Capossela – alla maniera di ciò che fece Alan Lomax per il folk americano – si mescolano con rielaborazioni delle forme popolari a cura dell’autore e a materiale completamente originale, creando un corpus globale di ventotto pezzi estremamente vari per genere e forma. Come il blues del delta si modulava sulle parole del racconto, modellando la forma musicale, aggiungendo misure, o togliendone senza un criterio preciso, così anche qui – come in altre forme popolari – l’espressione musicale non è legata a forme classiche prestabilite, ma attinge alla tradizione orale, che in quanto tale è imprecisa per natura e si tramanda per apprendimento diretto, senza particolari conoscenze musicali.
Non andremo sicuramente pezzo per pezzo, sarebbe troppo lungo e poi si farebbe perdere all’ascoltatore il fascino di questo viaggio scomodo, fatto a dorso di mulo, o a piedi, ma estremamente affascinante. Occorre andare oltre il primo – volontario, sicuramente – fastidio ispirato dai primi due pezzi e si approda ai violini e alla fisarmonica de La padrona mia, brano che potrebbe parlare di Puglia o di una hacienda messicana, senza contrasto o stonatura alcuna.
A brani estremamente vivaci come Pettarossa – storia di una prostituta in cui appare anche il cymbalon, strumento tipico dell’Europa Centrale – si alternano ballate raccolte come Lu furastiero, in cui Capossela si accompagna solo con una chitarra classica. Questo brano fra l’altro appartiene al repertorio di Matteo Salvatore, altro artista italiano di cui sono state riprese, fra le altre anche Nachecici eRapatatumpa, quest’ultima essendo uno dei pezzi più suggestivi almeno di questo primo album, sorta di sfilata della morte a ritmo di tarantella.
Dobbiamo dire almeno due parole anche sulla seconda parte dell’opera, Ombra, che si apre con la cavalcata possente de La bestia nel grano, dalle inaspettate aperture armoniche. Come in tutto il lavoro, non si può mai essere certi, il percorso è continuamente variato, un brano può partire e poi improvvisamente cambiare traiettoria, aprire altri scenari, acquistare altri colori.
Nell’immaginario dell’artista – lui stesso lo ha dichiarato in una intervista – la creatura preferita e al tempo stesso più temuta è il pumminale, il licantropo, il lato oscuro che dà sfogo agli istinti più bestiali. Raccontato nel brano omonimo Il Pumminale, questa creatura fantastica riaffiora qua e là fra le creature della Cupa. Ah già, perché questo è il titolo complessivo di questo lavoro, Le canzoni della Cupa. Racconta Capossela che tutti i paesi dell’entroterra, non toccati dal mare o vicini a città avevano sempre un lato esposto al sole ed uno coperto dall’ombra. Paesi spesso arrampicati su un dirupo, i cui due lati compongono un dualismo, “un’unità immobile. Ferma in un tempo circolare, che si ripete in eterno, come il tempo della terra e delle stagioni.”
Ecco, sarebbe bastato copiare prima questa frase dell’autore tratta dalle note di copertina e si sarebbe spiegato tutto meglio di quanto abbiamo cercato di fare sopra. Ma qualche indicazione per il viaggio ci voleva, almeno per individuare che bagaglio portare. Anche se clima, vestiario e calzature, come già detto, possono cambiare inaspettatamente. E occhio alle ortiche, che comunque qua e là ci sono.
In molte tradizioni le bande che accompagnano i matrimoni e i funerali sono le stesse. Allo stesso modo anche qui (specialmente nella rutilante Lo sposalizio di Maloservizio) vita e morte si intrecciano, fra richiami religiosi (bellissima la descrizione di Erodiade e Salomè che si rimbalzano la colpa del martirio del precursore ne La notte di San Giovanni) e zone d’ombra, formule magiche, strazianti ballate e danze sfrenate. Un’ultima menzione per la finale Il treno, in cui le vallate dell’Irpinia si trasformano in canyon dell’Arizona, il lupo diventa coyote, e il fascino dei tempi passati muta nella desolazione del presente svuotato di tradizione. Un lavoro non facile, un viaggio impegnativo. Tocca a voi decidere se compierlo o no.