Nell’arco di trent’anni il Rossini opera festival (Rof) è diventato la manifestazione di musica “colta” più importante della Penisola. Ha una rilevanza mondiale perché – come ha scritto anni fa High Canning sul Sunday Times di Londra – “non è solamente la revisione critica di partiture spurie che ha in verità riabilitato Rossini come un compositore di una portata e di una maestria teatrale finora insospettabili. Dal 1980, infatti, il Rossini Opera Festival di Pesaro ha sistematicamente restituito al repertorio capolavori dimenticati o sottovalutati e ha allevato una generazione di ottimi cantanti rossiniani. Per qualche misterioso motivo, l’Italia che, per anni, non è riuscita a produrre eccellenti cantanti verdiani, è ora inondata da soprani e mezzosoprani che soddisfano in virtuosismo i raccapriccianti tecnicismi che la ricca musica di Rossini richiede. È altrettanto inspiegabile che tenori rossiniani – la cui penuria spiega in parte l’oblio delle opere serie – crescano ora negli Stati Uniti come funghi”.
L’edizione 2011 (10-23 agosto) aggiunge una nuova dimensione: presenta un Rossini “patriota”, un’immagine molto differente da quella tradizionale secondo cui il Pesarese, auto-esiliatosi a Parigi dal 1850 circa alla morte, si interessava a belle donne e buona cucina, era un devoto “teocon” (che pur non disdegnava i bordelli) e tutto sommato se ne impipava del movimento di unità nazionale, ossia del Risorgimento.
La sera del 10 agosto viene presentata in quella che è di fatto la prima edizione scenica dal 1820 o giù di lì“Adelaide di Borgogna”, un lavoro che ha avuto poca fortuna: dopo la prima al Teatro Argentina di Roma il 27 dicembre 1817 è stata vista a Padova, a Venezia, Lugo di Romagna, a Lisbona e a Livorno (spesso in versioni molto rimaneggiate) per riapparire in forma di concerto a Londra nel 1978, essere proposta in versione scenica (senza molto successo) a Martina Franca nel 1984, essere ascoltata (sempre in forma di concerto) a Parigi, Liegi, Edimburgo e Pesaro.
“Adelaide di Borgogna” ha molti punti di contatto con la letteratura pre-Risorgimentale o proto-Risorgimentale che stava nascendo in quel periodo.
In primo luogo, l’ambientazione in un Nord d’Italia in cui ci si contende “la corona di ferro”. In secondo luogo, la complessità della trama, basata su effettivi avvenimenti storici pur se con cambiamenti di luoghi e di anni rispetto a dove e quando si svolsero.
Il finale “lieto” celebra la ricomposizione del Regno d’Italia (del 950 circa) contro chi tramava per impossessarsene e addirittura l’impegno del Sacro Romano Imperatore per farne, con l’amata Adelaide, un’unione personale.
Sotto il profilo musicale, l’opera è stata a lungo considerata come un lavoro solo parzialmente di Rossini che nel 1817 aveva già prodotto “La Cenerentola” per Roma, “La Gazza Ladra” per Milano e l’”Armida” per Napoli; senza dubbio il compositore si è fatto ampiamente aiutare sia per i recitativi sia per alcune arie dai suoi allievi e collaboratori (Radiciotti, 19927-29). Tuttavia, i colori indipendentisti sono certamente suoi iniziando dal coro d’apertura (della popolazione) che pare anticipare di almeno tre lustri il coro degli esuli nel Macbeth verdiano:
Misera Patria Oppressa
Chi ti Darà Sostegno?
In sì Fatal Sciagura
Qual Dio ci Assisterà?
Apri la Chiusa Terra
Al tuo Valor le Porte.
A Contrastarti in Guerra
Braccio non v’ha sì Forte.
Toni che riemergono in molti altri punti dell’opera, ad esempio nel coro dei soldati nel primo atto:
Salve, Italia, un Dì Regnante
Dall’Accaso ai Lidi Eoli,
Genitrice degli Eroi,
Ogni Cor s’Inchina a Te.
Sorgi, Sorgi; al Ciel Chiedesti
Un sostegno, e il Ciel lo diè
Tornerai Regina ancora
A Mostrarti Assisa in Soglio,
Come Fosti in Campidoglio,
Nell’Antica Maestà
Ché di Spada e di Lorica
Un Possente t’Armerà.
Se l’opera non fosse sparita nell’Ottocento, questo coro avrebbe ben potuto competere con altri per diventare Inno Nazionale del Regno d’Italia. Dobbiamo tenere presente che l’opera era stata commissionata da uno dei Teatri di uno Stato Pontificio in cui Papa Pio VII era l’emblema stesso della Restaurazione (era stato un abilissimo negoziatore al Congresso di Vienna) e Roma appariva a Giacomo Leopardi, che vi si era recato con tanto entusiasmo, poco più di un grande borgo squallido, una Roma in cui si tramavano congiure, giungevano eco di moti e rivolte popolari nelle province (importante quelli svoltisi a Macerata) e la censura vigilava su tutto e tutti.
Ove i riferimenti non fossero abbastanza espliciti, dai bozzetti dell’allestimento (regia, scene, costumi e luci di Pier’All; direzione musicale di Vladimir Jurowski ambientano la vicenda nel 1850 o giù di lì; con moschetti, quindi, al posto delle alabarde. Senza dubbio la messa in scena riaprirà il dibattito sul “patriottismo” o meno di Gioacchino Rossini, dibattito addirittura aperto da un saggio di Stendhal.
Il Festival non si esaurisce con Adelaide di Borgogna. Viene presentato un nuovo allestimento di Mosé in Egitto, una ripresa de La Scala di Seta, una nuova edizione critica (in forma di concerto) de Il Barbiere di Siviglia, l’ormai immancabile Viaggio a Reims affidato ai giovani dell’Accademia Rossiniana e una serie di concerti. Ci si contende i pochi posti ancora liberi.