Abbandono programmaticamente e dalla prima parola scritta per questo articolo il tentativo di scrivere analiticamente e con ordine. Questo non rispetterebbe lo spirito della materia trattata, né dei protagonisti in questione. Cercherò di rendere onore al capolavoro a mio modo, in ordine sparso.
Tema: il 1 giugno 1967 viene pubblicato Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, un album di musica leggera dei Beatles. Sono passati 50 anni. L’album precedente del quartetto di Liverpool salito in cima al mondo, Revolver aveva individuato una strada, provocando nell’ascoltatore la straordinaria esperienza di voltare pagina ad ogni brano, entrando volta per volta in mondi musicali estremamente diversi l’uno dall’altro ed al tempo stesso estremamente diversi da tutto quello che era stato fatto nel pop fino a quel momento.
Non siamo qui per parlare di Revolver, ma solo qualche breve esempio, in successione: una feroce ed acida invettiva contro il regime fiscale (Taxman, di George Harrison) a colpi di chitarre elettriche, seguita dalla storia di una vecchia zitella defunta (Eleanor Rigby, di Paul McCartney) in cui nessuno della band suona, ma c’è solo un doppio quartetto d’archi; poi un assonnato ed acustico John Lennon in I’m Only Sleeping e l’India di Harrison in Love You To, seguita da una delle più belle canzoni d’amore di tutti i tempi, Here, There And Everywhere e subito dopo il divertissement di Yellow Submarine. E poi c’erano altre otto canzoni…
Ma questo era Revolver, 5 agosto 1966. Un mese scarso dopo, il 29 agosto, al Candlestick Park di San Francisco i Beatles suonano per l’ultima volta dal vivo. Nel novembre successivo cominciano a lavorare al materiale per un nuovo album. Ma prima del fatidico 1 giugno, si permettono di far uscire un 45 giri (per i più giovani: un disco singolo che normalmente aveva una facciata A con il brano più forte, ed una facciata B con un filler, o comunque con un brano meno incidente), il quale singolo però ha – singolarmente!! – due facciate A. Si tratta niente di meno che di Strawberry Fields Forever di Lennon e Penny Lane di McCartney. Difficile dire quale delle due canzoni sia la più bella, in effetti.
Piccola parentesi ed aneddoto che dimostra grande rispetto nei confronti del pubblico. In quei tempi se una canzone veniva pubblicata come singolo, non compariva anche sull’LP (o album che dir si voglia). Sarebbe figurata come una solenne fregatura per chi avesse comperato la stessa canzone due volte. Caro ed arguto lettore, tira tu da solo le tue conclusioni sull’epoca odierna.
Sgt. Pepper, dunque. L’idea di un concept album (album in cui le canzoni si svolgono tutte intorno ad un tema – o ad una storia – portante) naufraga abbastanza, un po’ perché difficile da sostenere, un po’ per l’avversione viscerale di Lennon per questo formato. Resta però iconograficamente: i quattro Beatles, appositamente baffuti – peraltro i baffi finti erano un gadget della fantasmagorica e psichedelica copertina dell’album – e agghindati a dovere, si trasformano nei suonatori di una fanfara multicolore, pronta ad individuare nuovi mondi sonori lavorando duramente. Sì, perché i quattro passano decine e decine di ore nel loro studio di registrazione, esigenti, talvolta maniacali, per riuscire a partorire il lavoro musicale che avevano in mente. Paradossalmente, il lavoro per il White Album sarà molto più disordinato, e di conseguenza il risultato – pur con delle perle assolute – più discontinuo. E poi occorre assolutamente fare i conti con le limitazioni tecniche in cui lavoravano.
Sgt. Pepper è il primo lavoro nel quale i Beatles possono impiegare otto tracce separate per la registrazione (o meglio quattro + quattro, appaiate e sincronizzate con metodi pionieristici). Per non addentrarmi troppo in meandri tecnici, cercherò di farmi intendere con un esempio: confrontato ai mezzi tecnici odierni (e alla scarsità qualitativa di tanta musica attuale) potremmo paragonare lo sforzo creativo dei Beatles – e di George Martin, e dei tecnici che li seguivano – a partecipare ad una gara di Formula uno con una Panda. Eppure loro hanno vinto il Gran Premio.
Mio malgrado – per mantenere la metafora – devo percorrere gli ultimi giri senza fermarmi troppo sui tantissimi particolari della pista. Ma dobbiamo almeno menzionare Lucy In The Sky With Diamonds, lennoniano, smentito apocrifo della droga allucinogena; With A Little Help From My Friends, sgangherata ma convincente performance vocale di Ringo, resa immortale qualche anno dopo a Woodstock dall’urlo atavico di Joe Cocker; Getting Better e le sue tessiture di chitarre e tanbur indiano; Being For The Benefit Of Mr. Kite!, circense allegoria per la quale Lennon disse a George Martin di voler sentir uscire dai solchi del disco l’odore della segatura – e Martin ci riesce, scoprite voi come! – ; la storia della ragazza scappata di casa di She’s Leaving Home, orchestrata solo per arpa e archi e con lo struggente controcanto dei genitori che non capiscono cosa sia successo; ed infine i due spezzoni di canzone (uno di Lennon ed uno di McCartney) che uniti generano A Day In The Life, con quel crescendo di archi da fine del mondo, che la prima volta fa da giunta fra i due segmenti di canzone e la seconda porta all’accordo finale, suonato a 10 mani su tre pianoforti. Spiegare queste canzoni senza ascoltarle è come, per dirla con il grande regista russo Andrei Tarkovsky, cercare di spiegare un arcobaleno ad un cieco.
Frange di quello che è successo poi: all’alba del giorno in cui la band ebbe in mano la prima copia del disco, i quattro si recarono all’alba a casa di “Mama” Cass Elliott (travagliata cantante dei Mamas&Papas che all’epoca viveva a Londra) riproducendo l’album a tutto volume sui tetti di Chelsea. Negli Stati Uniti alcune radio sospesero la programmazione per diversi giorni, trasmettendo solo le canzoni di questo album. David Crosby portò una copia dell’album ai suoi amici Jefferson Airplane in un albergo a Seattle e lo fece ascoltare per tutta la notte nell’atrio, con centinaia di persone estasiate che ascoltavano attentissimi sulle scale e ovunque.
Ecco il vero Occidentali’s Karma: un disco che ha realmente plasmato molta della musica a venire.
Sunto finale: ascoltare questi brani cinquanta anni dopo l’uscita – ed aver ascoltato un bel po’ di altra musica in questi decenni – ci fa rendere conto di quante volte ciò che i Beatles inventavano e sperimentavano per la prima volta sia stato poi ripreso ed usato da decine di artisti successivi a loro.
Solo alcuni esempi, anch’essi presi random: andate ad ascoltarvi Fixing A Hole: la frase di risposta al cantato delle chitarre elettriche (la prima volta appare a 20 secondi dall’inizio della canzone) è esattamente la stessa frase di risposta usata da Zucchero Fornaciari nella sua hit Rispetto. Il pianoforte suonato ad accordi sui quarti (With A Little Help From My Friends, ma anche Penny Lane, Getting Better e altre), a sua volta fondato sulle prime canzoni delle Supremes, è stato ripreso in decine di canzoni, anche italiane – si pensi per esempio a Cesare Cremonini, che per i Beatles ha una vera è propria adorazione. L’orchestrazione del loro arrangiatore, il grande George Martin ha fatto scuola per le generazioni future.
Epilogo: pochi giorni dopo l’uscita del disco, i Beatles verranno scelti dalla BBC per rappresentare la Gran Bretagna in occasione della prima trasmissione televisiva internazionale via Satellite. Domenica 25 giugno 1967, in mezzo ad un certo numero di orchestrali, attorniati da amici e musicisti (Mick Jagger e i Rolling Stones, Marianne Faithfull, Graham Nash, Eric Clapton) i Beatles realizzeranno suonandolo dal vivo in mondovisione il loro successivo singolo, All You Need Is Love. Peccato che nel tripudio generato dalla loro grande genialità e abnegazione si stesse innestando – favorito anche dall’uso di stupefacenti – il seme maligno del delirio di onnipotenza, la convinzione di poter fare tutto.
A detta di molti All You Need Is Love rappresenta l’inizio della discesa dalla vetta. Discesa che presenterà sicuramente molti altri bei panorami sonori, negli album che li separeranno dalla fine, ma che mai raggiungeranno quella sintesi, quel respiro, quella spettacolarità variegata rappresentata da Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band.