Mentre mi sto recando all’appuntamento con il vincitore del Festival di Sanremo 2011, Roberto Vecchioni, mi fermo per un toast veloce in un bar della metropolitana. Appena entrato, mi raggiungono le note suonate forte proprio della canzone che quest’ultimo Festival di Sanremo lo ha vinto. Chiamami ancora amore, di Roberto Vecchioni. Un segno preciso. È vero che siamo a pochi giorni dalla fine della manifestazione canora, per cui è ovvio che quella che ha vinto risuoni in giro almeno per un po’. Ma è certo un bel sentire, entrare in un bar della distratta e affannata Milano e sentire queste note potenti ed evocative invece dell’usuale “bum – ta – bum” della canzonetta usa e getta.
È come se nel caos della vita quotidiana si aprisse uno spiraglio, di bellezza. In fondo, è a questo che dovrebbero servire le canzoni, ad aprire la porta alla bellezza, invece che a rinchiuderla fragorosamente come ormai le canzoni sembrano fare. Roberto Vecchioni si palesa al nostro appuntamento con la compagnia abituale, un bel sigaro toscano che appoggia sul tavolino davanti a lui e che poi spezzerà per goderselo fumando. Un gentiluomo d’altri tempi, un professore nella cura che usa nello scegliere le parole, socchiudendo gli occhi e meditandone la scelta, ma anche un uomo di giovanile baldanza nell’aspetto fisico.
Un dialogo che prende subito le forme di comuni riferimenti, ad esempio quando gli faccio notare che nella sua canzone vittoriosa ho ritrovato la medesima intuizione lirica, quell’invocazione affinché la notte finisca, che è presente in un brano del poeta e cantautore canadese Leonard Cohen, If It Be Your Will. Sorride annuendo compiaciuto e poi chiede a bruciapelo se ci fossi stato anche io a Venezia, al recente concerto di Cohen. Rispondo che no, io l’ho visto agli Arcimboldi di Milano, ma entrambi concordiamo nell’ammettere di aver provato la medesima commozione davanti a una tale testimonianza di amore per la bellezza della canzone come è quella che sa testimoniare Cohen.
Quello che mi ha colpito, oltre alla bellezza innegabile della tua Chiamami ancora amore, è stata la forza e la potenza della tua interpretazione. Ogni sera aggiungevi qualcosa e devo dire che secondo me la tua interpretazione durante la seconda serata è stata quella più evocativa e drammatica, la migliore.
Beh, intanto fa piacere sapere che c’è qualcuno che ha visto ogni singola esibizione e ne ha colto le differenze, perché mica tutti ci sono riusciti. Sono d’accordo anche io che la seconda serata è stata quella dove sono riuscito a dare il meglio. Ma sai perché? Perché era andata bene la prima serata, cosa che non era per niente scontata, e allora avevo preso forza e coraggio. Mi sono detto prima di salire sul palco: diamoci dentro, facciamo uscire la verità di questa canzone…
In quella seconda serata hai terminato l’esibizione con una sorta di imprecazione, se non abbiamo letto male il tuo labiale…
Sì, perché avevo sbagliato una parola e mi ero arrabbiato con me stesso. Ma anche per la fine di una tensione devastante che mi aveva sostenuto per tutto il tempo della durata del brano. Quell’imprecazione è stata come dire: ecco, adesso l’ho cantata come la volevo cantare.
Guarda che ero arrivato a Sanremo pieno di dubbi e di paure. Mi dicevo, se sbaglio quei primi quattro minuti, della prima serata, è tutto rovinato, è tutto distrutto. Non è stato così per fortuna.
Però nelle tue interpretazioni sanremesi c’era anche una marcia in più che è tipica di chi è un performer consumato, con una classe che sul palco di Sanremo è difficile vedere…
Sì, può darsi, ma vedi quello che si è visto a Sanremo, di mio, è quello che io sono abituato a dare ogni sera nei miei concerti, in ogni teatro dove mi esibisco. Il fatto è che normalmente lo faccio per 2mila persone, il che è un numero che a me va benissimo, ma questa volta ho detto: ma perché non allargare questo pubblico? E bada bene, non per me, ma per la canzone italiana. Usciamo da certi schemi dozzinali, facciamo capire alla gente che la canzone d’autore può anche essere canzone popolare. Ecco qual è stato il mio compito, il rischio che mi sono preso andando a Sanremo, ma alla fine credo di aver avuto ragione. È stata una scommessa vincente.
Possiamo dire che se ogni anno si presentasse a Sanremo un cantautore della tua generazione vincerebbe a mani basse? Che non ci sarebbe concorrenza fra quanto propone la canzone d’oggi e quello che voi invece fate da decenni?
No, magari un altro non vincerebbe. Ma sicuramente darebbe un gran lustro alla manifestazione. Per me la canzone è uno studio, un esperimento, è sempre stato così. Un esperimento continuo con una materia che è fondamentale nella vita mia e degli altri. Io non tratto mai la canzone con leggerezza. Poi, onestamente, io ho scritto canzoni più belle di questa che ha vinto Sanremo, ma questa era perfetta per il Festival. La strofa che arriva poco a poco, il ritornello che picchia mica da ridere e che ti rimane dentro… Ha ragione chi ha scritto che questa canzone è diventata di tutti, di chi è di destra e di chi è di sinistra, di chi è giovane e di chi è vecchio. Ha dentro un’istanza comune a tutti: che le cose brutte finiscano, che la notte finisca, che arrivi il giorno. Un concetto semplicissimo, ma è questo che rende una canzone popolare.
Infatti: sono quei versi, “che questa maledetta notte dovrà pur finire, perché la riempiremo di musica e parole” a corrispondere immediatamente, perché quella notte che non finisce mai l’abbiamo vissuta proprio tutti prima o poi nelle nostre vite.
Infatti, è così. Ognuno ha avuto la sua notte, c’è un riconoscimento comune nella notte, nel buio, dal buio di questa Italia al buio che ognuno si porta dentro. Ma è un buio a cui può, si deve porre termine. E vale veramente per tutti, io non ho voluto assolutamente fare una canzone che si identificasse politicamente con questa o quella parte. Io ho fatto una canzone d’amore.
Ne hai fatto anche una versione più rock, durante Sanremo, con la Premiata Forneria Marconi.
È una canzone che può essere anche rock, non vive solo dell’arrangiamento orchestrale. Ha un’anima rock, e la PFM ne ha saputo fare una lettura splendida secondo me. Ho chiesto io a loro se volevano accompagnarmi, peraltro stiamo lavorando insieme, ho scritto i testi per il loro prossimo disco.
Il tuo nuovo disco, invece, che si intitola proprio “Chiamami ancora amore”…
Contiene alcune canzoni vecchie, tre inediti, e anche una sorpresa assoluta. Un brano che scrissi addirittura nel 1963 e che ho ritrovato su un vecchissimo registratore Geloso. La canzone è disponibile da scaricare per tutti quelli che comprano il disco. Quando l’ho risentita su quel vecchio registratore sono rimasto a bocca aperta, mi sono detto ma che bella la devo rifare!
Ci sono anche dei duetti…
Sì: c’è un pezzo con Ornella Vanoni (Dentro gli occhi, nda), Ornella è una mia vecchia e carissima amica. La canzone è un pezzo che parla di me, della mia anima. Poi c’è Love Song con Federica Fornabaio, una bravissima arrangiatrice e pianista. È una canzone particolarissima, perché è un discorso tra un uomo e la sua anima da bambino che è dentro di lui, non parla a una donna ma parla all’anima che è dentro di sé. Abbiamo inciso il brano solo voci e pianoforte, così, come se fossimo dentro a un cabaret, dal vivo. Infine Il nostro amore, con Dolcenera. Pochi sanno che lei è anche una bravissima compositrice, la conoscono come interprete invece scrive bellissime canzoni. La musica è di Tchaikovski, io ci ho messo le parole. Solo donne, ho voluto solo delle donne con me in questo disco.
Come mai l’inclusione di Hotel Supramonte, un brano di Fabrizio De André?
Perché è bellissima e questo già basterebbe. Poi è forse la sua unica vera canzone d’amore, per un uomo sempre così impegnato a cantare degli altri, del sociale, Hotel Supramonte è una straordinaria canzone d’amore. E stata registrata dal vivo durante uno spettacolo che feci l’anno scorso.
Come ti sono sembrate le canzoni che concorrevano con la tua al Festival?
È stato un Sanremo credo sopra la media. Ha dato cose orecchiabili, canzoni di contenuto e ben scritte. Mi viene in mente Yanez di Davide Van De Sfroos, una bellissima ballata che va oltre i limiti del Lago di Como. Il pezzo dei La Crus era molto bello. Ma bello anche quello di Battiato e Madonia, bello quello di Max Pezzali. Mi sono piaciuti Emma e i Modà, hanno fatto un brano molto interessante e anche piuttosto difficile da cantare con passaggi lirici. Meritavano moltissimo e infatti sono primi in classifica, segno che poi vincere Sanremo non è così importante. Poi ci sono state cose un po’ strane, ad esempio Patty Pravo: la sua era una canzone molto bella, ma ha avuto qualche problema comunicativo, la voce è rimasta dentro e la bellezza del brano si è persa nell’interpretazione.
E della serata per i 150 anni dell’unità d’Italia cosa ne dici?
Molto carina. Sono stati tutti molto sportivi, hanno accettato di fare pezzi che magari non erano nelle loro corde rischiando, ma era evidente che tutti si sono prestati con impegno e passione per dare emozioni. Poi vabbè, c’è stato Benigni che ha dato ben altre emozioni molto superiori…
Dunque un bilancio positivo per questo festival a conduzione Morandi.
Personalmente ho trovato tutto davvero positivo e non perché ho vinto. È stato uno dei pochi Festival dove nessuno ha litigato, tutti concordi nei verdetti, credo non si ricordasse a memoria d’uomo una cosa del genere, e tanta amicizia fra i cantanti.
Allora ci tornerai?
Ma non lo so, dipende se avrò una canzone altrettanto valida ad esempio. Questa volta io sapevo che la mia canzone era una canzone perfetta per Sanremo.
Già, ma in fondo a tutto, questa canzone che ha vinto, come è arrivata?
Credo siano state l’insistenza e il coraggio di Morandi, che continuava a dirmi, dai vieni a Sanremo… Me lo ha messo talmente nella testa che una notte è arrivata questa canzone, questo motivo che alla fine mi sono detto, va bene devo provarci. Me ne frego se qualcuno storce ancora adesso il naso per questa mia partecipazione. La canzone deve aprirsi, non chiudersi, come ogni cosa nella vita peraltro. Aprirsi alle sfide e alle possibilità. E allora se mi verrà un’altra canzone così, ci tornerò. Una cosa è importante: bisogna avere rispetto delle situazioni dove ci troviamo. Non puoi andare a Sanremo con una canzone intellettuale, super impegnata. Non puoi andarci con un pezzo difficile e poi dire, siete tutti degli stronzi perché non lo capite. Bisogna avere rispetto, e in questo caso avere rispetto di Sanremo, di quello che è e di quello che significa. È il Festival della canzone dopo tutto, non è il Festival della letteratura. Canzone e letteratura sono due cose diverse.
Adesso andrai in Tour?
Partiremo a giugno, 40 o 50 date. Avrei potuto farne anche un centinaio vista la richiesta, ma va bene così. Poi ho altri impegni: ho cominciato a lavorare al mio nuovo romanzo, il settimo.
Di che cosa si tratta?
È la storia di un vecchio professore ottantenne che ripensa alla sua vita, le sue memorie, che racconta tutte le cose belle che ha incontrato nella sua vita. Le cose che bisogna conservare. Cataloga tutte le cose belle che ha visto, con l’aiuto di una ragazza (attenzione: maggiorenne!) di cui è innamorato. Ma si tratta di un amore spirituale vista l’età.
L’amore è un tema importantissimo per te. Il modo con cui ne parli mi fa venire in mente quello del tuo collega Leonard Cohen: una condizione esistenziale incancellabile, un amore visto e vissuto come trascendenza. È vero?
Assolutamente. L’amore ci trasforma. E ti dirò: passati i sessant’anni mi sono ritrovato a provare lo stesso gusto che avevo a trent’anni. Mi sono trovato a innamorarmi di nuovo ogni giorno della stessa donna. L’amore è una grande maledizione, perché non ti lascia libero un momento, non ti lascia respirare, ma averne di maledizioni così! È una sfida continua al senso della vita, una sfida che ti rimette sempre in discussione.
Questo mi fa venire in mente un verso di una tua canzone degli anni 70, L’ultimo spettacolo, un verso che sin da quando lo ascoltai la prima volta mi fece chiedere che cosa significasse veramente. Tu dicevi: “Non si è soli se qualcuno se n’è andato, si è soli se qualcuno non è mai venuto”. Di solito, la fine di un rapporto è visto come la morte di ogni possibilità, l’arrendersi alla solitudine… Qua invece è come se tu affermassi la presenza dentro a una assenza.
È proprio così, la presenza dentro l’assenza. Quando hai avuto un rapporto, c’è stata una presenza nella tua vita, e quella presenza permane. È accaduto qualcosa. Non importa se quel rapporto finisce, è un tratto fondamentale del percorso della tua vita. Un pezzo della tua vita è stato percorso da questa persona. È come diceva Ungaretti: “Nel cuore ogni croce resta nessun cimitero è così grande come il mio cuore”. Perché questo vale anche quando una persona muore: le persone che mi sono morte sono tutte nel mio cuore e non possono uscirne, le persone che ho amato, dal mio cuore.