Quando venne a Milano a presentare il suo primo disco, Fiona Apple era appena diciottenne. Era quella l’età con cui aveva pubblicato il suo disco di esordio, “Tidal”. Era il 1996 e a noi smaliziati critici musicali, ma più che altro annoiati, presenti quel giorno in un elegante locale ci apparve scontato che la ragazzina, seduta all’imponente piano a coda, stesse esagerando con la pretenziosità e l’arroganza. Forse distratti dai cocktail generosamente offerti dalla casa discografica come si usava fare a quei tempi in cui nel mondo della musica giravano ancora abbastanza soldi per invitare artisti esteri e a sovvenzionare i cronisti a base di drink, ci venne da dire: bravina, ma torna quando sarai maturata e maggiormente credibile.
Fiona Apple, nella sua scontrosa bellezza ci sembrava una ragazzina che giocava a fare la donna del dolore, con una impostazione musicale così seria e intimista che non s’accordava all’età. Il giudizio cambiò quando, ascoltato a fondo quel disco d’esordio, e saputo la storia personale di Fiona (stuprata a 12 anni da un uomo che sarebbe rimasto sconosciuto) capimmo che in realtà la ragazzina non era proprio una ragazzina. O meglio, lo era, ma una ragazzina che si portava dietro un dolore impossibile da dimenticare e che l’aveva ferita dalla vita prima del tempo. Donna del dolore appunto.
“Tidal” comunque fu un grande successo commerciale e vinse anche un Grammy, segno che il pubblico era più intelligente di qualche critico musicale italiano. Ed era un gran bel disco. Le ferite di Fiona non le hanno facilitato la carriera, nonostante un seguito di pubblico fedele. Da quel primo disco del 1996 sono seguiti solo altri due lavori discografici: quello con il titolo più lungo della storia del rock, tanto lungo da entrare anche le Guiness dei primati con le sue novanta parole (in realtà è una poesia della stessa Apple) per brevità ricordato come “When the Pawn….” del 1999, bello e feroce come il primo lavoro, e “Extraordinary Machine” del 2005.
Quest’ultimo ha una storia interessante, che sottolinea ancora una volta di che pasta sia fatta la piccola Fiona: dopo averlo completato, non era contenta del risultato e decise di non pubblicarlo. Ma il disco intanto era finito su Internet dove i fan lo scaricavano. La ragazza tornò in studio e lo riregistrò con alcuni cambiamenti per pubblicarne finalmente la versione finale. Ci sono voluti adesso altri sette anni per avere un nuovo lavoro discografico e di nuovo con un titolo che se non è lungo 90 parole poco ci manca.
L’attesa ne è valsa la pena e per certi versi potrebbe essere il suo disco più bello, più maturo, sicuramente il più essenziale e diretto. Brutale, quasi, nella sua incarnazione solo voce e pianoforte e qualche abbellimento qua e là di batteria, chitarre, effetti sonori minimali. Oggi Fiona Apple ha 35 anni, ma evidentemente non ha dimenticato il dolore che si porta dietro. Anche se nessuna canzone fa riferimento esplicito all’episodio dello stupro, ma sono canzoni che riflettono su relazioni sentimentali finite male o per colpa di lui o per colpa di lei, il disco è straordinario nella sua forza espressiva, forza che a Fiona non è mai mancata ma che in questa raccolta di canzoni risulta estremamente efficace.
E’ un disco difficile, ovviamente, ma è anche vero che è tale il sentimento che sprigiona che si rimane incantati e colpiti sin dal primo ascolto. Come i dischi migliori, suggerisce un rimando, sottintende emozioni che si possono rivelare solo con il tempo, ha una esigenza di ritorno all’ascolto che è insopprimibile. In questo senso Worewolf appare come il brano più riuscito dell’intero disco: sorta di Joni Mitchell in nero, vedova del pianoforte a metà strada tra Laura Nyro e la stessa Mitchell, Fiona Apple è irriverente e delicata allo stesso tempo, una capacità di sintesi rara nel mondo delle autrici femminili contemporanee. La forza di Fiona Apple è sottintendere senza enunciare: Periphery con la sua andatura apparentemente stramba, le percussioni fatte di effetti sonori stranianti, affonda invece in una Parigi anni trenta, dove i jazzisti americani emigravano in cerca di gloria. E’ in un brano come Anything We Want che si capisce il segreto di questa cantautrice unica nel suo genere, aver saputo fondere cioè elementi dell’alternative rock degli anni 90, le sue dissonanze e le sue ossessioni, con il jazz.
La conclusiva Hot Knife nel suo attacco a cappella è il miglior esempio in questo senso della straordinaria musicalità che scorre nelle vene di Fiona: diverse tracce vocali si sovrappongono una sull’altra in un coro ipnotico e accattivante che sembra quasi un coro sudafricano: “If I’m butter, If I’m butter/ If I’m butter, then he’s a hot knife”. Fiona Apple ha coniato un linguaggio espressivo che è unico perché unica è l’anima di Fiona Apple. Così facendo ha traghettato l’anima alternative della sua generazione senza perderne l’essenza in una musicalità che adesso è adulta e suonerà di ispirazione per le generazioni future.