Ultima opera di Vincenzo Bellini, che sarebbe stato stroncato, a meno di 35 anni da un’infezione intestinale, I Puritani fu composta a Parigi per un pubblico, però, in gran misura francese. Bellini aveva abbandonato il proprio librettista favorito, Felice Romani, d in Francia, nei salotti di Cristina Trivulzio di Belgiojoso, ivi fuggita a ragione dei suoi contatti con la carboneria, aveva incontrato il Conte Carlo Pepoli, autore del libretto del lavoro.
Anche Pepoli era in esilio; si riteneva un poeta (ma Leopardi aveva dissuaso la sorella a leggere i suoi scritti) e dal dramma storico di Jacques-François Ancelot e Joseph Xavier Boniface Têtes rondes et Cavaliers ne uscì uno dei libretti più scombinati della storia del melodramma. E’, però, sotto il profilo musicale, il capolavoro di Bellini, per la cui messa in scena a Parigi disponeva di voci davvero eccezionali. Ne scrisse una seconda versione per il San Carlo, adattando i registri (specialmente quello della protagonista – da soprano a mezzo soprano) dove, però, venne rappresentata solo nel 1857; è stata ripresa un paio di volte di recente essenzialmente come curiosità.
I Puritani è lavoro la cui messa in scena fa tremare il polso a sovrintendi e direttori musicali di teatri per le difficoltà vocali che comporta. E’ anche di grande importanza la scrittura orchestrale; a differenza di gran parte delle opere di Bellini non è solo o principalmente di supporto al belcanto (come, ad esempio, in Norma) ma densa di presagi del romanticismo francese. I ‘numeri’ sono, poi, molto estesi, altra indicazione che ove Bellini fosse vissuto, avrebbe viaggiato non verso il melodramma verdiano ma verso il romanticismo o francese od anche tedesco, a ragione dell’importanza dei colori orchestrali.
E’ una delle opere raramente rappresentate del compositore catanese, anche perché basata su un libretto in cui amori, intrighi, tradimenti (finti o presunti) e pazzia ai tempi delle guerre di Cromwell con gli Stuart si intrecciano tra loro e terminano con colpo di scena a lieto fine. Le noti di regia non semplificano la lettura perché prendendo spunto da uno scambio di versi nel terzo atto, questo atto è spostato di tre secoli e l’azione intesa come ricordi di larve. Fortunatamente, solo che ha letto le note si rende conto dell’intenzione del regista.
De Chirico ne firmò un allestimento in cui l’astrusa vicenda era trasformata in un gioco di carte – una fazione erano i “quadri” e l’altra i”cuori”- quasi a sottolineare l’irrilevanza del testo. Nel 2008-2009 una messa in scena di Pier’Alli è stato co-prodotta dalle fondazioni liriche di Palermo, Bologna e Cagliari e portato al Festival di Sanvonlinna in Filandia ed infine a Tokio al Bunka Kaikan. Nel 2012 il “circuito lombardo” ( Cremona, Como, Brescia, Pavia) e il “Pergolesi” di Jesi hanno realizzato un’avventura analoga, affidando la regia, le scene ed i costumi, ad una squadra proveniente dal teatro di prosa sperimentale (Carmelo Rifici, Guido Buganza, Margherita Baldoni), e la direzione musicale ed il canto a interpreti giovani e poco conosciuti. Ne ho un ottimo ricordo anche e soprattutto grazie all’ottima direzione orchestrale di Giacomo Sagripanti
I Puritani si addice ad essere coprodotto non per l’impianto scenico ma per la difficoltà di trovare voci adatte. La produzione ora in scena a Firenze sino al 10 febbraio sarà a Torino dal 14 al 26 aprile e forse in autunno a Trieste. La regia è affidata a Fabio Ceresa (classe 1981): come detto, le note di regia possono disorientare il pubblico per la collocazione del terzo atto in un ipotetico Ade. Invece, l’attenta recitazione, l’astuto impiego delle masse, la cupa scena di Tiziano Santi ed i costumi di Giuseppe Palella rendono efficacemente l’atmosfera ossessiva che circonda la protagonista (Jessica Pratt in grandissima forma) e rendono plausibile il libretto. Il secondo atto, quasi interamente dedicato alla ‘scena della pazzia’, prova che la Pratt è uno dei rari soprani in grado di affrontare il ruolo.
Il gruppo dei protagonisti maschili, di buon livello ma non eccelso, è composto da Massimo Cavalletti, Antino Siragusa e Gianluca Buratto. Eccellente la direzione musicale di Matteo Beltrani (classe 1975) il quale, oltre a tenere bene gli equilibri tra buca e palcoscenico, ha messo in evidenza la delicatissima introduzione e la giustamente famosa polonaise e mostrato come l’ultima opera di Bellini è un vero ricamo di atmosfere affidate alla sonorità orchestrali tali da rendere plausibile (almeno tanto quanto la vocalità) l’astruso intreccio. Una direzione musicale che pone l’opera nel ‘romanticismo francese’ ed è degna di gareggiare con quella registrata dall’allora giovane Riccardo Muti nel 1980.
L’Italia ha ormai un gruppo di giovani maestri concertatori, molto apprezzati nei maggiori teatri stranieri ma vorremo vedere più spesso in Patria. Il cronista deve riferire che c’è stata qualche labile protesta alla concertazione ‘romantica’ di Beltrami e non tutti hanno apprezzato la lettura psicoanalitica di Ceresa.