La sera del 27 novembre 2014 potrebbe entrare negli annali del Teatro dell’Opera, come quella della rinascita di un teatro che si temeva stesse per finire in stato di dissesto. Venti minuti di applausi al calar del sipario di ‘Rusalka’ di Antonin Dvorák, opera poco nota al grande pubblico e presentata in un allestimento volutamente povero (costo totale di scene, costumi e luci 50.000 euro), facilmente trasportabile in altri teatri.
Una recensione del capolavoro di Dvorák per il teatro in musica necessita una duplice premessa: la scarsa fortuna delle opere fantastiche nell’Italia dell’Ottocento e del Novecento e il ruolo del compositore nello sviluppo dell’opera nella Cèchia.
Agli italiani, si potrebbe dire, non piacciono le favole. Tendenzialmente scettici e disillusi, abbiamo poca dimestichezza con il fiabesco nella letteratura in generale. Probabilmente l’unico apporto alla letteratura mondiale nel genere è “L’Orlando Furioso” dell’Ariosto. Nella narrativa possiamo vantare unicamente una favola per bambini: “Pinocchio” di Collodi che, ricordiamolo, non nacque come favola ma divenne tale a grande richiesta dei lettori . Nel teatro, le stupende favole di Carlo Gozzi vennero offuscate dalle commedie borghesi di Carlo Goldoni. Nel teatro in musica, la favolistica finì con il Barocco. I tentativi di Mascagni, Malipiero e pochi altri di riprendere il genere che, all’inizio del Novecento aveva grande fortuna in Germania, Francia e nell’Europa centrale ed orientale, fallirono miseramente: anche quando suscitarono reazioni positive dalla critica, il pubblico voltò loro le spalle.
E’ vero che la pucciniana “Turandot” viene situata nella Cina “dei tempi delle favole”, ma né il libretto né la musica hanno un vero elemento magico: l’accento è sul dramma in un quadro, per certi aspetti, autobiografico.
Eppure proprio “la musa bizzarra ed altera”, l’opera lirica, nata in Italia e che in Italia ha avuto la sua più lunga e più importante stagione come spettacolo commerciale per il grande pubblico di tutti i ceti sociali, si presta meravigliosamente al fiabesco per la fusione di azione scenica, canto, danza ed orchestra. E come tale nasce a Firenze. Nel nostro Paese il fantastico sparisce alla fine del Settecento: la stessa “Armida” di Rossini, pur ispirata al fiabesco dell’Ariosto, diventa innanzitutto un’opera erotico-sensuale. Il melodramma del romanticismo italiano quasi rigetta il fiabesco, centrale invece all’opera tedesca (si pensi a Marschner, Weber, allo stesso Wagner) dello stesso periodo, nonché a quella del Novecento (si pensi a Strauss). Nella Francia della Terza Repubblica il fiabesco viene utilizzato per dilatare nel mito i temi della società borghese nel periodo dell’industrializzazione trionfante (si pensi a “Cendrillon”, “Chérubin” e “Le Joungleur de Nôtre Dame-” di Massenet). In Europa centrale ed orientale, le favole antiche (unitamente alla storia nazionale) alimentano la nascita di forme di teatro in musica che prendono nettamente le distanze da quelle assunte in Europa occidentale.
Dvorák ha, nel corso della sua vita, costantemente avuto l’ambizione di diventare un grande autore di teatro in musica: sette delle otto opera precedenti “Rusalka” traevano ispirazione o da truculenti drammi storici o da commedie, pure essere storiche o semi-storiche (l’obiettivo era dar vita ad una scuola operistica nazionale boema) Si avvicino al fiabesco in “Il Diavolo e Caterina”, lavoro in cui all’orchestra viene dato un peso sinfonico e nel canto ci si avvicina al declamato.
Grazie al direttore del Teatro Nazionale, Frantisek Subert, il compositore conobbe un lavoro del giovane scrittore Jaroslav Kvapil, in seguito una figura importante del teatro boemo. Trovò congeniale il libretto, che era stato in precedenza offerto senza successo ad altri musicisti. Anche “Rusalka” era nell’alveo del racconto fiabesco, nel mondo della natura incantata particolarmente caro alla sensibilità del compositore Dvorák, che vi si era ispirato per vari altri lavori, e in particolare per il gruppo di poemi sinfonici tratti dalle ballate popolari di Erben (1896), tra cui ve n’è uno intitolato appunto “Spirito delle acque”. In “Rusalka” il fiabesco è di carattere sentimentale e simbolico, anziché comico e fantastico come nell’opera immediatamente precedente, “Il diavolo e Caterina”. Kvapil si ispirò al tema della creatura acquatica che prende natura umana per amore pagandone le conseguenze: un antico motivo della letteratura nordica ripreso con ampiezza dal romanticismo, di cui sono esempi ben noti la novella “Undine” dell’ugonotto tedesco Friedrich de La Motte-Fouqué e la “Sirenetta” di Hans Christian Andersen; il poeta vi aggiunse inoltre altri elementi eterogenei, in particolare legati al folklore popolare boemo. L’opera è diventata col tempo, assieme alla “Sposa venduta” di Smetana, il maggiore classico del teatro boemo.
La vicenda è molto semplice. La ninfa Rusalka è innamorata del Principe. Per incontrarlo, è disposta ad assumere sembianze umane, pur al prezzo di perdere la parola. Il giovane si innamora ma non troppo: nel giorno delle nozze segue senza farsi troppi problemi una rabbiosa e passionale principessa straniera cattura le sue attenzioni. Rusalka ritorna al lago, avviata a un destino di tristezza eterna. Il principe non riesce però a liberarsi dell’ossessione-Rusalka. Morirà chiedendo perdono tra le sue braccia. Il fiabesco (siamo all’inizio del Novecento) si coniuga, quindi, con il simbolismo: il desiderio di diventare donna dell’essere semi-sovrumano e la passione-maledizione.
Siamo, però, lontani anni luce dal contemporaneo Debussy oppure da Janácek, i cui capolavori sarebbero stati composti, nel teatro cèco, soltanto qualche lustro più tardi. Dvorák , sotto molto aspetti, è il nesso tra Smetana e Janácek, rivolto però all’Ottocento mentre il moravo era lanciato verso un Novecento la cui portata innovativa venne compresa da pochi dei suoi contemporanei. Il temperamento di Dvorák è lirico e melodico, per se utilizza un grande organico ed i lietmotive wagneriani (ossia non mnemonici ma legati a personaggi ed a situazioni) : l’attenzione è più sul contesto e sui singoli personaggi che sull’azione drammatica. Inoltre, il sinfonismo non può non permeare l’intera partitura. Mentre nella scrittura vocale, il declamato wagneriano si trasforma in leider anche a più voci (come nel duetto finale) e le voci fanno da contrappunto all’orchestra (come nel quadro iniziale delle ninfe).
La scarsa fortuna di “Rusalka” in Italia deve attribuirsi in gran misura alla poca attenzione di critici e pubblico nei confronti del fiabesco, nonché alle difficoltà di realizzazione scenica. Tuttavia, qualcosa sta mutando: l’opera che mancava dalla scene romane dalla stagione 1992-93 (quando ebbe la sua “prima” nella capitale in un allestimento, molto discutibile, importato dalla Gran Bretagna in cui la vicenda era trasportata in un ospedale ai giorni d’oggi) ha avuto un grande successo a Torino alcuni fa. Si è vista anche alla Scala alcuni anni fa. Inoltre, il fiabesco sta tornando in scena: Cagliari ha inaugurato la stagione 2008 con una delle opere più fiabesche di Rimski-Korsakov : “La leggenda della città invisibile di Kitez”. Sempre nel 2008 “Rusalka” è tornata a Roma : l’allestimento veniva dal Teatro Dvorák (una sala di circa 600 posti) di Ostrava (una città di 300.000 abitanti nel Nord Est della Repubblica Chéchia- quindi ai confini con la Polonia e con la Slovacchia) ed era davvero essenziali, ma le voci erano buone.
Del ‘mini-miracolo’ che , con un budget di 50.000 euro, Denis Krief( autore di scene, costumi e luci, ora espatriato a Berlino dopo trenta anni di lavoro in Italia) parliamo altrove. Ci soffermiamo invece sugli aspetti musicali.
In primo luogo, coro ed orchestra che hanno dato una magnifica prova, nonostante la preparazione sia avvenuta in una fase di grande tensione. Ciò si deve alla grande professionalità dei professori d’orchestra e dei coristi (diretti da Roberto Gabbiano) e soprattutto alla maestria del giovane direttore d’orchestra norvegese Eivin Gullberg Jensen (classe 1972) già da un decennio noto come delle migliori bacchette in Europa e Nord America. Entra negli anfratti più complessi di una partitura in cui una base tardo-romantica si fonde con elementi wagneriani e motivi tratti da musica popolare slava. Esemplare il trattamento dei fiati. Importante come notare come abbia gentilmente abbassato la sonorità dell’orchestra nel primo atto quando cantava Maksim Aksenov che, uso a lavorare in teatri di dimensioni inferiori a quelle dell’Opera di Roma, conservava il volume per l’impervio terzo atto.
I due protagonisti Svetla Vassileva e Maksim Aksenov hanno le phisique du rôle in quanto dall’aspetto giovane e bello; hanno cantato più volte le relative parti e sanno essere davvero commoventi nel loro amore impossibile. Sufficientemente ‘volgarotta’, e sensuale (come vuole la parte) Michelle Breedt nel ruolo della principessa straniera. Ottimi sia nel canto sia nella recitazione Larissa Diadkova (la strega) e Steven Humes (lo Spirito dell’acqua). Di livello gli altri.
Da augurarsi che altri teatri circuirono questo straordinario spettacolo.