Aprendo i maggiori quotidiani dei giorni scorsi non poteva non cadere l’occhio sulla notizia del primo summit del Gotha finanziario Musulmano a Londra fotografato nelle immagini e nei numeri sensazionali della politica dell’attuale Elisabetta, tutta protesa a sostenerla per fare del proprio Regno l’hub occidentale di questo flusso monetario.
Per chi si è recato invece in quei giorni agli Arcimboldi ad assistere alla prima della rappresentazione di Otello di Giuseppe Verdi su libretto di Boito, non è stato possibile evitare di cogliere la coincidenza con quanto accadde nel 1600 sotto un’ altra Elisabetta, la Grande, sul medesimo scenario londinese. Veniva colà accolta un’altra delegazione musulmana, in questo caso inviata dal re del Marocco con lo scopo preciso di istituire un’alleanza militare tra i Mori musulmani e la corona inglese contro la Spagna, considerata il braccio secolare della Chiesa di Roma.
Questa delegazione era guidata dal grande ambasciatore Abd-el-Ouahed ben Massaoud ben Mohamed Anoun, secondo gli studiosi la più diretta fonte, assieme alla novella di Giraldi Cinthio, di ispirazione per Shakespeare per la figura e le vicende del Moro di Venezia.
Premessa questa semplice considerazione di fortuite circostanze dal vago sentore di destino che si ripete, ecco che in scena – attraverso le note verdiane così intrise di passione e contemporaneamente di equilibrio formale – si incontrano, per questo allestimento, i tre piani di lettura che colpiscono almeno quanto la forza delle note.
E precisamente 1) quello della fonte appunto shakesperiana; 2) quello strettamente operistico-musicale Verdi/Boito e 3) quello registico di De Luca. I tre piani si intersecano continuamente e costituiscono una fortissima attrattiva nella rappresentazione.
Innanzitutto avendo a mente il noto “I am not what I am” dell’Atto primo, Scena prima espresso da Iago icasticamente e tutto il successivo susseguirsi di ‘travisamenti’ e apparir di fatti e personaggi diversamente da come in realtà manifestano essere veramente (Iago: “Gli uomini dovrebbero esser quello che sembrano, o, se lo sono, non dovrebbero sembrarlo affatto”; Otello: “Sicuro, gli uomini dovrebbero essere quello che sembrano”; Atto Terzo, Scena Terza) fino al culmine del travisamento per cui la cosa più amata, la dolce Desdemona, viene fatta oggetto di sanguinoso misconoscimento.
E questo tessuto drammatico, quello shakespeariano stretto, quello caratterizzante il ‘nuovo’ Teatro elisabettiano dove il retroterra psicologico comincia a fare la sua comparsa venando di scetticismo la forma mentale dell’uomo riformato, ci porta con un salto straordinario perfino al nostro Pirandello di molti secoli più tardi: iniziava la malattia del ‘moderno’.
In secondo luogo appare la lettura che, con una prospettiva di critica storica del prodotto artistico, non possiamo non attribuire invece al secolo XIX e più precisamente a quel periodo in cui (come Ricordi – da buon imprenditore e fiutatore delle ‘novità’- non cessava di ‘suggerire’ a Verdi) il wagnerismo era imperante.
Ma il pedaggio pagato al wagnerismo non è tanto forse in termini di musica pura e semplice, anche se al nuovo periodare senza ‘forme chiuse’ per lo più si vuole attribuire, quanto nella interpolazione che avviene nell’Atto II. Qui il monologo cantato da Iago totalmente estraneo all’Otello shakespeariano fa affiorare, come dice Bossini, “una sorta di culto della Morte e del Nulla dai tratti addirittura trascendentali”. Resta drammaticamente impressa la chiusa del fraseggio: “La morte è il Nulla, una vecchia fola il Ciel!”.
In questo inserimento totalmente ottocentesco sulla trama emerge come sul grande pubblico, allora come oggi, quello che fa più presa, è il pedaggio da pagare allo Spirito del Tempo. E come questo viri sempre verso l’espressione più disperante perché disimpegnata.
Sarebbe opportuno ricordare le critiche nicciane al Wagner che, dopo anni di amicizia, scopriva e ‘glorificava’ gli istinti nichilisti, la fatica, la morte col suo rendere musicalmente l’onnipotenza e l’antivolontà tanto da narcotizzare sbigottendo come in un sogno cupo le anime ‘malate’.
Tutto il contrario del superuomo che – pur con i limiti che non possiamo non attribuire a questa figura – esigeva che la musica fosse esaltazione della volontà di vivere come era il flauto di Dioniso , rispettandone il carattere affermativo e trasfigurativo del mondo anziché divenire – come in “Wagner narcotizzatore” – vera e propria musica di ‘decadenza’.
Il terzo livello di lettura è quello della regìa di De Luca che – secondo le sue stesse parole – vuole porre “l’accento sulle relazioni tra i personaggi, senza proporre interpretazioni preconfezionate”.
E per fare questo adotta a nostro avviso felicemente una scenografia semplicissima, se pure sofisticatissima.
Come infatti spiega lui ha dato vita: “Uno spazio che faccia riferimento alla 0 del teatro elisabettiano e a quella simbolica circolarità che rappresenta il mondo intero: un antichissimo altare –piattaforma, pronto ad accogliere un inevitabile sacrificio di sangue umano al lato più oscuro delle passioni umane”.
La linearità ed essenzialità della scelta di questa piattaforma a gradoni impercettibilmente ma costantemente rotante, è capace di evocare lo ‘scorrere’ del tempo scandito dalle passioni, dentro e fuori il contesto teatrale in senso stretto, cioè anche in quello del proprio senso interiore sottolineando in maniera subliminale, una musica perfettamente sintonia con la narrazione, e, così facendo, riesce a bilanciare le forti tensioni espresse dai due livelli precedenti
(Carla Vites)