La sera del 5 gennaio, uscendo alle 20 circa dalla Sala Cecilia, una signora elegantemente impellicciata (nonostante l’anticipo di primavera, la temperatura aveva sfiorato, a mezzogiorno, i 19 gradi al giorno), consorte di un noto parlamentare, diceva a voce non bassa: “Perché Pappano (direttore musicale dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, ndr) fa musica così moderna? Per vendere biglietti ai giovani?” (la sala era piena di ragazzi e ragazze nonostante il concerto iniziasse alle 18 della Vigilia dell’Epifania). La gentildonna, un po’ ingenua e un po’ zingarellianamente ignorante, non aveva forse letto il programma di sala. Ciò che aveva ascoltato poteva sembrare o scioccante o sottilmente astuto, ma in ogni caso radicale, ma aveva un secolo sulle spalle: Le Sacre du Printemps (La Sagra della Primavera) di Igor Stravinskij di cui si celebrava il centenario.
Nel 1913, sì, era contemporaneissima Al Théâtre des Champs-Elysées, scatenò un vero scandalo e una vera battaglia. Partitura breve (35 minuti) ma estremamente complessa, portava, con violenza (ancor più marcata in quanto alternata a momenti delicatissimi), la musica slava e le antiche danze uraliche (dense di ritmo) al pubblico europeo su un libretto incentrato sul sacrificio umano (di una vergine) per celebrare il rito dell’arrivo della primavera. L’Accademia di Santa Cecilia ne ha celebrato il centenario con un concerto (si replica il 7 e l’8 gennaio) dedicato alla primavera.
Su “Le Sacre” (partitura ormai notissima, tanto che nei concerti dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia è stata eseguita 22 volte, l’ultima nel 2009 ma nel 2010 è stata in scena in vari teatri in occasione del centenario della creazione dei Balletts Russes ), si è scritto moltissimo. Il vostro chroniqueur rinvia al saggio di Ada D’Adamo Danzare il Rito: Le Sacre du Printemps attraverso il Novecento e all’autobiografia di Igor Stravinskij per soffermarsi sul concerto.
Come mai la paludata Sala Santa Cecilia era affollata oltre che dagli abbonati da tanti giovani? Le Sacre mantiene la sua caratteristica di fondo: l’oggetto della musica si sposta dalla mente (come nell’Ottocento) ai sentimenti al corpo umano. Come nei concerti rock. Non lo aveva fatto neanche il balletto ottocentesco, elegante ed acrobatico, ma non da coinvolgere i muscoli di tutto il corpo umano e di mostrarli apertamente anche in un’esecuzione solo di concerto senza scene , costumi e danzatori. A tal fine, la partitura radicale allora, lo è ancora oggi.
E’ un radicalismo astuto, basato su un’attenta combinazione di musiche tradizionali uraliche e timbri d’avanguardia. Stravinskij ed il coreografo Diaghelev (ambedue sepolti, per loro scelta, a Venezia) erano ottimi impresari e cercavano lo scandalo. Lo ebbero alla prima. Che venne seguita da un numerose repliche a Parigi prima di partire per un viaggio che dura ancora. Il giovane, ma già affermato, direttore Vasily Petrenko, e l’orchestra, hanno colto efficacemente tale radicalismo astuto, scioccante ma sottile, che incanta ancora il pubblico di tutte le età con la sua studiata furia travolgente.
Il “rito” della primavera ancora modernissimo di Stravinskij è stato preceduto da due rarità:Printemps per coro ed orchestra di Claude Debussy e la Cantata Primavera per baritono, coro e orchestra, di Serge Rachmaninoff. Due composizioni brevi (di 15 minuti ciascuna). La prima è opera giovanile di un Debussy, studente a Villa Medici, ancora intriso della poetica di Jules Massenet che medita su una primavera romana è in due tempi, nel secondo il ritmo evoca le botticelle. La seconda è una breve gemma tardo-romantica (si potrebbero fare paralleli con Ein Florentine Tragoedie di Zemlisky) su come la primavera frena gli istinti assassini di un marito tradito. Ottimo Alexei Tanovitski nel ruolo del protagonista. Sempre di livello il coro diretto da Ciro Visco.