It’s time to move on, time to get going
What lies ahead, I have no way of knowing
But under my feet, baby, grass is growing
Yeah it’s time to move on, it’s time to get going…
“È tempo di muoversi, è tempo di andarsene. Che cosa attende davanti a me, non ho modo di saperlo: ma sotto i miei piedi l’erba sta crescendo, ed è tempo di muoversi, è tempo di mettersi in cammino…”: questo più o meno il senso del ritornello della bellissima Time to move on, cantato da Tom Petty sopra un tappeto di tastiere e batteria a spazzole perfettamente fuse fra di loro: chiudendo gli occhi sembra quasi di vedere le linee bianche dell’autostrada scorrere via, di notte, sotto le ruote dell’auto, mentre all’orizzonte un broken skyline si muove lentamente, allontanandosi nell’oscurità.
È il 1994, la canzone è pubblicata in Wildflowers, l’album che segna il ritorno di Petty a sonorità più rock’n’roll e r’n’b, dopo le cattedrali di suono costruite negli ultimi 5 anni in Full Moon Fever e Into the Great Wide Open. Sono parole che raccontano la fine di una storia, la necessità di andare avanti dopo tanto male, chiedendosi quale sia la via per trovare qualcosa di migliore, la via “per il perdono”; ma sono parole che potrebbero raccontare sorprendentemente quanto successo pochi giorni fa: Tom Petty, ci ha lasciati, partito per un nuovo viaggio il 2 ottobre scorso, stroncato da un attacco cardiaco nella sua casa a Malibu in California.
Da sempre caratterizzato, ad un tempo, da una verve combattiva e da una discreta ritrosia (basta vederne le mosse ingessate sul palco del Live Aid del 1985, quasi fosse a disagio nella kermesse dei grandi istrioni della musica), Tom Petty è figura inscindibile dai suoi Heartbreakers, gruppo che vanta una carriera forse non condotta su vette irraggiungibili, ma sempre ad alti livelli e con pochissime macchie nella sua durata più che quarantennale. Un gruppo che ha saputo conciliare le più diverse radici musicali esprimendo un suono compatto e perfetto, anche e soprattutto dal vivo, diventando una delle rock’n’roll band più efficaci del secolo.
Tom Petty and the Heartbreakers fanno il loro ingresso sulla scena musicale nel 1976: l’album omonimo ripropone, con una freschezza e una linearità sorprendenti, la ruvidità del più puro rythm’n’blues unitamente al jingle-jangle elettrizzante dei Byrds, influenza fondamentale per la musica di Tom e dei suoi Spezzacuori. Una tappa iniziale che contiene, in nuce, tutto il canovaccio lungo il quale si snoderà la musica degli Heartbreakers: schitarrate tanto decise quanto pulite ed eleganti, assoli travolgenti e tremendamente ordinati di Mike Campbell, le fondamentali, delicate tastiere di Benmont Tench, una sezione ritmica che varierà negli anni – pur conservando la sua forza e la sua aggressività – passando da Stan Lynch e Ron Blair a Steve Ferrone e Howie Epstein (dopo la tragica morte di quest’ultimo, il basso è tornato nelle mani di Blair); negli ultimi anni, la chitarra e l’armonica di Scott Thurston a consolidare il tutto. Al centro di questa grande costruzione, come perla di diamante, la voce nasale, morbida e inconfondibile di Tom (al secolo Thomas Earl Petty), che nella sua apparente, dylaniana trascinatezza è capace di non mancare mai una nota, e di raggiungere la pulizia e la melodicità, che so, di un Roy Orbison o di un Roger McGuinn, appunto. Sullo sfondo campeggiano, di volta in volta, gli immancabili Beatles e Rolling Stones.
Quello che fa grandi gli Heartbreakers è anche la capacità testuale e narrativa di Petty, che riesce a dar voce, in prima persona (poche invece le storie raccontate in terza persona, da storyteller, nel repertorio della band), alle angosce, ai drammi e allo stesso tempo alla spensieratezza di tante persone comuni di quell’America del Sud alla quale lui, nativo di Gainesville, in Florida, rimase sempre col cuore incatenato. Sono quei particolari che fanno sì che un cantante e la sua musica diventino tuoi compagni di viaggio, in qualche modo, che ti siano familiari. Muovendosi fra stupende melodie, Tom ha passato gli anni della sua vita a gridare che “anything that’s rock’n’ roll’s fine”, che “anche i perdenti a volte possono essere fortunati”, che “l’attesa è la parte più dura” in un rapporto, a seguire le tante “stories we could tell”, a “imparare a volare” anche senza ali, ad affermare di essere “sempre in corsa verso un altro posto, cercando una qualche grazia salvatrice”, a bisbigliare pentito che, sprofondato in un vortice di male (la droga? L’azzardo?), qualsiasi cosa sia non lo farà più, “no more”.
Se Damn the Torpedoes (1979) rimane l’album che lo consacra come stella del rock, e The Waiting di Hard Promises (1981) una delle canzoni più belle, l’album forse più esemplare della creatività di Tom (anche se sicuramente non il più bello) è Southern Accents: nei nove brani che si susseguono troviamo l’attaccamento alle terre d’origine (nella furiosa Rebels ancor più che nella title-track), la tensione musicale eversiva (Don’t Come Around Here No More, con l’annesso video), i rimandi alle proprie radici musicali (The Best of Everything), la cura maniacale per la realizzazione musicale (si tratta di un album affidato a diversi produttori e fra i quali troviamo, oltre allo stesso Petty, gente come Jimmy Iovine, Dave Stewart degli Eurythmics e Robbie Robertson – scusate se è poco).
E poi il rapporto amoroso/d’amicizia/musicale di lunga data con Stevie Nicks, il sodalizio con Johnny Depp (che compare protagonista nel video di Into the Great Wide Open), le collaborazioni con Ringo Starr, Dave Grohl, lo stesso Roger McGuinn… fino a guadagnarsi, insieme al suo gruppo, come un’unica inscindibile entità, l’induction alla Rock & Roll Hall of Fame, nel 2002.
Tom Petty ebbe sempre la capacità, come si è accennato, di riappropriarsi della musica con cui era cresciuto, reinventandola, facendola propria, senza scimmiottare nessuno ma senza mai rinnegare quanto lo aveva preceduto, anzi in qualche modo additando – a chi lo ascoltava – sempre là, a cavallo fra gli anni ’50-’60, come a dire: io vengo da lì. E questa stima, questo rispetto per chi era venuto prima di lui, si tradusse poi in Petty, in un atteggiamento discreto, pronto a farsi in qualche modo da parte o a stare un po’ in disparte, anche quando la carriera era ormai quella di una superstar: accadde nei due tour (1986 e 1987), a fare da spalla con gli Spezzacuori alla leggenda che necessitava un riscatto, il maestro in persona, Bob Dylan; accadde nell’eccentrica esperienza dei Traveling Wilburys, fra i quali Petty ammise di sentirsi sempre un po’ l’ultimo arrivato, un po’ quinto fra cotanto senno, parafrasando Dante; accadde ancora con Johnny Cash, al quale nel 2003 prestò le armonie e le chitarre per la propria I Won’t Back Down, per Solitary Man di Neil Diamond, e The Running Kind di Merle Haggard: sembra quasi di vederlo Tom, silenzioso, al tavolo con il grande Man in Black, osservando stupito il vecchio leone che ancora imperioso suona
le sue ultime canzoni, avviato verso il suo ultimo viaggio.
La sua ultima intervista a Rolling Stone è un concentrato dell’animo più vero di Petty: il suo amore e la sua stima per ogni membro del gruppo, l’amore per i suoi maestri, la bellezza di continuare a suonare su un palco… soprattutto il rapporto con chi lo ascolta: “Le persone vengono spesso da me. A volte vogliono solo dirti ‘ciao’, o qualcosa del genere. (…) Alcuni dicono ‘grazie per essere stato la colonna sonora della mia vita’ capisci? E ho sempre pensato che sia un complimento stupendo perché so cosa significa (…) Una volta, uscendo da un posto a L.A., c’erano alcune ragazzine… (…) Ci siamo fermati, abbiamo abbassato il finestrino per autografare la roba che avevano, e una ragazza aveva una copia di Echo [album di Petty del 1997], e mi disse: ‘so che non ti piace questo album, ma mi ha aiutato attraverso un momento molto duro’. Ho detto qualcosa come ‘Bene, figo’, e l’ho firmato. Più tardi ho pensato: ‘Vedi? Le cose possono funzionare anche quando nemmeno te ne rendi conto’, capisci? (…) Qualcosa è accaduto qui”.
Fino ad arrivare al passaggio, stringente, sul suo futuro. L’intervistatore domanda: “Ti gusti ogni show un po’ di più perché… Non per essere macabro, ma hai probabilmente meno show davanti a te di quanti no ne abbia alle tue spalle.” E la risposta: “Me li godo veramente. Ho apprezzato veramente stare sul palco durante questo tour. Non so esattamente perché, ma è un vero divertimento, sai? Questo è uno straordinario gruppo di musicisti. È molto raro. Non credo ci abbiamo mai fatto molto caso, ma ultimamente mi sembra così”. Tom si è goduto tutto della sua vita di musicista, fino all’ultimo.
Le ultime parole per il suo pubblico all’Hollywood Bowl, qualche giorno prima di morire sono state: “We love you dearly. I want to thank you for 40 years of a really great time. We’re almost out of time, we got time for this right here”, prima di attaccare con American Girl, finendo là dove lui, Campbell e gli altri avevano cominciato.
E ora It’s time to move on, Tom, time to get going. Arrivederci.