Partiamo dal titolo. Intervistati da Rockit poco prima dell’uscita del disco, i Verdena hanno rivelato che “Endkadenz” è un’invenzione del compositore tedesco-argentino Mauricio Kagel, che negli anni’70 ha scritto musica sinfonica d’avanguardia, facendo anche recitare i musicisti come se fossero su un palcoscenico di teatro. Sostanzialmente, la parola in questione definisce un colpo particolare di tamburo, che segnalava la fine di una determinata sinfonia e che prevedeva che l’esecutore rompesse la pelle, si infilasse all’interno dello strumento e vi rimanesse immobile.
“L’ha scoperta Luca su un libro di percussioni – ha dichiarato in quella occasione la bassista Roberta Sammarelli – c’era un’illustrazione piccolina di questo omino tutto chinato, era proprio una bella immagine. Era simpatica, faceva ridere, però allo stesso tempo dava anche altre sensazioni.”
L’immagine in questione è riprodotta in varie dimensioni all’interno del booklet del cd e, sulla back cover dello stesso ma, sinceramente, più che far ridere evoca ben altre visioni: è una parola che profuma di Mitteleuropa, di atmosfera decadente ma ancora in qualche modo spensierata, di scrittori come Kafka, Musil, Svevo, Joyce. È una parola pesante, tutt’altro che leggera. E a guardare la copertina, con questa strana rivisitazione pop del celebre dettaglio dell’affresco michelangiolesco sulla Creazione, viene quasi da pensare che i Verdena tutto volessero fare, tranne che rassicurarci.
Una cosa sicura c’è ed è anche abbastanza evidente, però: il sesto lavoro in studio della band bergamasca (senza contare i numerosi ep) è ancora una volta un capolavoro.
Certo, con tutto quello che esce oggigiorno bisognerebbe andare cauti nello spendere una simile parola. Eppure, quando si parla dei Verdena, è davvero difficile non farlo.
Se si eccettua il primo disco, uscito nel 1999 e ancora pesantemente debitore di un certo suono grunge, a partire dal successivo “Solo un grande sasso” (2001), i tre hanno iniziato a dare fondo al loro eclettismo e al loro genio creativo, sfornando sempre cose diverse ma allo stesso tempo mantenendo costante il proprio marchio di fabbrica e la loro impronta sonora.
Dalle suggestioni psichedeliche del sopracitato secondo lavoro, al rock compatto e pieno di melodie de “Il suicidio del samurai”, sono poi passati all’elettricità acida di “Requiem”, che rileggeva alla loro maniera i Led Zeppelin e gli anni ’70. Infine, nel 2011 stupirono tutti con un disco doppio di 27 brani in cui sembravano tornati indietro di un decennio, andando a registrare una sorta di seguito ideale del White Album di Beatlesiana memoria.
Oggi, a quasi quattro anni di distanza, arriva questo “Endkadenz” il quale, ancora una volta, ci ha fornito materiale per riflettere e stupirsi allo stesso tempo.
Registrato all’ormai celebre Henhouse Studio, che hanno ricavato all’interno di un pollaio ad Albino, il paese del bergamasco da cui vengono e dove vivono tuttora, il nuovo capitolo della loro ormai nutrita discografia è ancora una volta l’esito di una autentica bulimia creativa. Del resto è proprio questo che sorprende, di loro. Quando terminano un tour e decidono di iniziare i lavori per un nuovo disco, il metodo è sempre quello: se ne tornano a casa, in quel paesino di poche migliaia di anime, tra boschi e montagne, si rinchiudono in studio, compongono e suonano. Non danno notizie di loro per mesi, anni. Poi, a un certo punto, annunciano che hanno finito e ti presentano un qualcosa che sempre, al primo ascolto, ti spiazza ma che nello stesso tempo vorresti andare avanti ad ascoltare all’infinito.
E il dono della sintesi, di sicuro, non ce l’hanno: ai tempi di “Wow” la stessa Universal si dimostrò sconcertata dal numero delle canzoni, dal fatto che sembrava un disco senza né capo né coda e arrivò a dubitare fortemente che potesse essere pubblicabile. I tre dovettero insistere non poco ma alla fine l’ebbero vinta: doppio cd venduto a prezzo speciale, successo di vendite senza precedenti, conseguente tour italiano all’insegna del sold out.
Questa volta, nonostante i confortanti precedenti, i tizi che comandano non se la sono bevuta: niente più disco doppio ma divisione in due parti e pubblicazione della seconda a qualche mese di distanza dalla prima. Una mossa indubbiamente intelligente, non certo da rinunciatari: innanzitutto (e lo ha ammesso la stessa band) un altro doppio album avrebbe significato la ripetizione di una forma, cosa che non sarebbe stata proprio da Verdena. In secondo luogo, questa volta sono i fan a ringraziare: “Endkadenz” dura complessivamente due ore e data l’enorme complessità della prima parte, sembra tutto sommato ragionevole che ci venga lasciato tempo sufficiente per assimilarla a dovere.
Dicevamo della complessità, appunto. “Endkadenz vol.1” non è vario come “Wow”, si focalizza su un numero di episodi leggermente minore e dalla durata più consistente, ma non è assolutamente facile da inquadrare. Anzi, a ben vedere si potrebbe dire che i Verdena non avevano mai fatto un disco così complicato, prima d’ora.
Leggendo in giro, ci si imbatte in qualche recensione che ha valorizzato la compattezza di questo disco, associandola a quella de “Il suicidio del samurai”. È senza dubbio vero, così come è anche vero che quel lavoro, se proprio siamo obbligati a fare dei paragoni, è anche quello che più facilmente si può tirare in ballo. A patto però che ci si fermi qui. Perché questo nuovo lavoro è, dicevamo, tutto tranne che immediato, e quel cd dalla copertina gialla aveva invece nell’immediatezza il suo punto forte.
Ci hanno anche un po’ ingannato, i tre ragazzi di Albino: avevamo ascoltato “Un po’ esageri”, il primo singolo, e ci era sembrato uno splendido gioiellino pop rock, dalle melodie ruvide ma orecchiabili, un piglio irresistibile e una struttura armonica rassicurante.
“Derek”, il secondo pezzo ad essere anticipato, giocava anch’esso sul terreno della facile fruibilità, col suo riff bello sostenuto e il suo contrappunto di tastiere anni ’80, quasi da videogioco. Un pezzo molto serrato e molto rock, diverso dal precedente ma che comunque dimostrava l’intenzione del trio di staccarsi dalle atmosfere di “Wow” per tornare a suonare diritti e soprattutto a picchiare duro.
Niente di più sbagliato. L’ascolto del disco nella sua interezza ha rivelato che sì, il lavoro precedente è stato accantonato ma che no, non si ha nessuna intenzione di rendere la vita facile all’ascoltatore.
C’è stato di sicuro un indurimento generale dei suoni: sin dall’iniziale “Ho una fissa” si notano le chitarre sature, che ci accolgono con un’esplosione quasi da giudizio universale. La voce di Alberto non è mai al naturale, è sempre carica di effetti e appare straniata, tormentata, anche quando abbandona le urla e le note più alte per concentrarsi maggiormente sulla melodia.
Ci sono un sacco di campionamenti, non solo elettronici ma anche di violini ed ottoni: un effetto curioso, quasi da orchestra decadente, che contribuisce a trasmettere l’idea di un qualcosa che sta o esplodendo o cadendo a pezzi, a seconda di come la si voglia vedere.
Non sempre la distorsione è in primo piano, però: “Puzzle” inizia con un pianoforte, al quale si aggiunge un’acustica e successivamente entra un tappeto di tastiere. È uno dei pezzi più visionari del disco, nel senso che se anche le melodie sono qui più semplici da seguire, c’è un’atmosfera cangiante, con un sacco di cose che succedono nel giro di soli quattro minuti di durata, come in una sorta di mini sinfonia.
“Nevischio” è un pop acustico ritmato e malinconico, che è anche l’unica canzone del disco ad essere prodotta da un esterno: Marco Fasolo è un vecchio amico della band e a lui Alberto ha affidato volentieri la consolle per due brani (l’altro lo ascolteremo nel disco successivo), vincendo la proverbiale ritrosia ad affidarsi ad altri elementi al di fuori del gruppo. Una scelta che, è bene dirlo, ha sempre pagato in termini di resa finale.
Anche in “Diluvio” e “Rilievo” compaiono elementi “classici”: nella prima c’è un piano mescolato a loop elettronici, mentre nella seconda ci sono dei cori a metà tra lo sciamanico e l’animalesco ed è un tripudio di archi e fiati sintetizzati.
Questa cosa delle voci è un altro aspetto molto interessante: per la prima volta il gruppo ha preferito non registrare i cori dal vivo ma ricreare le armonie in studio, utilizzando appositi effetti. È un altro contributo all’atmosfera particolare di questo lavoro: se non ci fai caso non lo noti ma in realtà ti rimane dentro, come una sorta di inquietante messaggio subliminale.
Terminata “Derek”, dopo quasi 35 minuti di ascolto, i Verdena, in una sorta di gioco sadico a provare le nostre capacità di resistenza, hanno tenuto per ultime le cinque canzoni più complesse ed articolate dell’intero lavoro. Sono pezzi affascinanti (“Inno del perdersi” e “Contro la ragione” sono tra le cose in assoluto più belle del disco) ma anche tremendamente difficili da seguire ed inquadrare. Impossibile tentare di descriverle: bisogna ascoltare e riascoltare, consci che la profondità espressa non è nulla che si possa assimilare prima di una ventina di volte.
Attenderemo la seconda parte per avere un quadro più preciso. Nel frattempo si può però affermare che “Endkadenz” rappresenti un’altra vittoria totale per la band bergamasca. E su questo ci sarebbe anche un bel ragionamento da fare, ora che siamo in chiusura: ci lamentiamo tutti che in Italia abbiamo un pubblico ignorante, che si ascoltano sempre le solite cose, che Vasco e Ligabue continuano a essere gli unici nomi che vengono in mente quando si parla di rock tricolore, che le televisioni e le radio non danno lo spazio necessario agli artisti emergenti, ecc.
Tutto vero e sacrosanto. Eppure, quando pensi ai Verdena sei costretto ad essere un po’ più ottimista: perché un gruppo così valido, così geniale, così fantasioso, così poco fuori dalla norma, così impossibile da definire, fa il pienone ovunque va, vende un sacco di dischi (anche questo sembra stia andando mica male) e sta ricevendo anche una discreta attenzione da parte dei mezzi di comunicazione più mainstream. Certo, poi il sito web della Rai compie un imperdonabile refuso nello scrivere il loro monicker; e certo, difficilmente li vedremo mai riempire Sansiro. Però hanno fatto sold out all’Alcatraz un mese e mezzo prima: scusate se è poco.
Quindi, saremo pure un paese musicalmente in agonia, ma almeno abbiamo i Verdena. Se volete emigrare, fate pure ma almeno date un ascolto a “Endkadenz”, prima di fare le valigie…