Il titolo della canzone di Francesco Guasti ha tutta la grandeur necessaria a una nuova proposta sanremese. Universo è la dimensione infinita per antonomasia, il vuoto che si espande nostro malgrado. Nonostante questa premessa l’attacco non è pretenzioso: siamo fatti per avere sogni/più grandi delle nostre vite/per amare e sorridere in giorni/messi alla prova da nuove sfide. Se i sogni fossero più piccoli di certe vite, sarebbero forse incubi. Quindi, rispetto all’infinità dell’universo, c’è subito un ridimensionamento del fattore umano. L’homo sapiens, pur avendo smesso la clava, rimane nella sua brodaglia onirica con un sussulto anti leopardiano: pare che tutti gradiscano accogliere con allegria le dure sfide che si rinnovano con l’alba del nuovo giorno. Questo atteggiamento, che può essere letto come pura incoscienza, si accompagna alla giusta dose di follia, e di per sé non sarebbe un male. Dio solo sa quanti pazzi siano ben più normali dei “normali” (siamo fatti per essere folli/complicarci la vita ci piace/progettiamo partenze e ritorni/senza uscire dalle nostre case). Il problema qui non è tanto esser folle quanto piuttosto complicarsi la vita, e di fatto i folli la vita la complicano agli altri. Questo autocompiacimento per le complicanze potrebbe essere risolto con un breve soggiorno in ospedale, luogo per antonomasia dove si entra sani e si esce malati, con un po’ di fortuna si riesce a rimanere vittima proprio di una “complicanza”. Risolverebbe inoltre anche la ricerca di consenso nella quotidianità in un gioco quasi hitchcockiano: resto o vado? Sono fuori o sono dentro? Sono il tipico mammone italiano che non si schioda da casa? La confusione è aumentata dal fatto che, nonostante la dichiarata propensione per la fissa dimora, e quindi per un’esistenza nei canoni, l’autore esprime appresso la propria inclinazione zingaresca in amore (siamo amanti dai cuori zingari/beviamo del vino invecchiato/con la speranza di essere liberi/sotto questo cielo stellato). Una posizione opposta quindi alla precedente: questa polarizzazione ci riporta al discorso della follia di prima, rinforzato anche dall’uso del plurale, sintomo di una personalità multipla. Da non sottovalutare l’aspetto da bon vivant che predilige il vino invecchiato sotto un cielo stellato, ma c’è il sospetto che abbia più che fare con la rima baciata che non con la connotazione di un senzatetto con una cultura enologica. Cosa succede nelle prossime strofe? C’è un inaspettato ricorso all’uso della prima persona singolare. Mentre le prime due strofe sono tutte un noi (forse per attenuare il senso di colpa circa la follia e il domicilio coatto), ecco che il nostro giovane si riprende le sue responsabilità (con la musica canto speranza/il futuro è di chi se lo prende/oggi ho messo un bel paio di scarpe/e sono andato incontro al mio presente). E in questo il pubblico sanremese non potrà non riconoscere un comportamento tipico: se le cose vanno male si parla di noi, se le cose vanno bene si parla di me. Il nostro giovane ritorna nel proprio se-stessismo grazie alla musica (valore terapeutico) e, cantando, riesce addirittura a portare la luce al prossimo, una prova di grande modestia. Per non strafare e per essere in linea con le proposte di governo attuali, lascia quel tanto di confusione parlando di futuro e presente: l’indicazione a essere proiettati in avanti è forte come pure l’invito a starsene dove si è, qui e ora. Vedete una contraddizione? Ma a Sanremo non conta, quel che conta invece, oltre al buon vino di prima, è un bel paio di scarpe. E non solo per salire sul palco dell’Ariston ma per essere in una pubblicità: entra nel tuo presente con un bel paio di scarpe. Non importa che siano scomode, l’importante è che siano belle. E questo è un bel salto concettuale perché nessun uomo sano di mente entrerebbe mai nel suo presente con un paio di scarpe scomode, questo è un privilegio che spetta alle donne. Ma il giovane Francesco non lascia niente al caso perché il sottile passaggio fintamente feticista ci introduce nella nuova strofa, dove l’incertezza legata al futuro-presente di prima ci tuffa nella pura ambiguità da LGBT. Questo ragazzo è davvero un millennial (anche se ha ormai 34 anni). In tre strofe combina l’amore per il vino buono e l’anima estetica a scapito di quella funzionale cum grano piperis: sono stato da entrambe le parti/consapevole ed incosciente/la natura dell’uomo ha i suoi vizi/e con gli errori si crescerà sempre. Questa è la strofa dell’ambiguo ma anche dell’auto assoluzione. Da una parte c’è la velata ammissione di essere stato di qua e di là, e chi vuol capir capisca. Tanto ci si può permettere a Sanremo.
La scelta lessicale è estremamente importante con gli aggettivi consapevole e incosciente in opposizione semantica solo apparente, perché incosciente qui non è inteso come privo di sensi, come fosse arrivato al pronto soccorso per un trauma cranico. Piccolo inciso, bisognerebbe anche chiarire l’uso della –d- eufonica a chi scrive i testi delle canzoni, per evitare cacofonie soprattutto in diretta nazionale. Si diceva, in questo caso il cantante è consapevole di fare una stupidaggine in-coscienza perché la natura dell’uomo, si sa, è viziosa. Ed ecco l’auto assoluzione: io faccio qualcosa ma non è colpa mia, è la mia natura, mi hanno disegnato così. Perché, signori telespettatori, siccome questo è lo Zecchino d’oro e non Sanremo, io devo ancora crescere. La strofa successiva ci conduce verso l’ottimismo cosmico perché l’autore si proietta negli spazi sconfinati del titolo con una promessa che però sconvolge la teoria evoluzionista: in questo universo/arriverò presto/il mondo comincia adesso/adesso. In effetti è solo la fotografia di una nazione, il mondo che comincia adesso, ossia dopo i trent’anni di età, è una licenza poetica e può avere i suoi risvolti positivi solo per chi canta. Dalla strofa successiva, che poi è il ritornello, bisogna fare molta attenzione: in questo universo/puoi perdere il senso/ma tutto riparte lo stesso/lo stesso. Qui la confusione spazio-temporale viene rimediata con un messaggio di speranza: nel buio siderale perdere il senso è un attimo ma rassicura sapere che, mentre noi vaghiamo in uno spazio freddo e inospitale, da qualche altra parte dell’universo tutto continua come se niente fosse. Meglio leggere le avversità in modo positivo: possiamo perderci nell’universo/senza più limiti ma quel che hai dentro/sputi sentenze affilate come lame/che tagliano chi si sporca per difendersi. Ora prende la connotazione di una pubblicità di gestore di telefonia mobile (senza più limiti) se non fosse che il tono quasi aggressivo ci mette a conoscenza di un repentino cambio di prospettiva. Siamo passati dall’iperuranio al dentro e questo dentro compensa il vuoto astrale riempiendolo di elementi totalmente umani con risvolti circensi (sputare lame). Da una parte c’è chi offende dall’altra chi viene offeso. Coloro che subiscono, oltre il danno dello sporco anche la beffa del taglio, forse avrebbero fatto meglio a starsene al freddo e al buio. Per compensare la totale assenza di gravità vigente nell’universo, il giovane ci ricorda che da questa parte l’anima smemorata può andare a fondo (possiamo esistere/senza ricordo/ma siamo anime/che vanno a fondo) ancorata forse da qualche peccato che ha a che fare con le lame o con l’ambiguità di qualche strofa prima. Viene il sospetto che, pur essendo tornati sulla terra, la sospensione governi corpi e pensieri ingenerando una certa confusione (siamo pur sempre esseri viventi): e fino a quando/non schiacciano le scuole/guardiamo chi è caduto/intorno a noi. Schiacciare la suola, un modo diverso per dire camminare anche se è poco chiara la funzione di coloro che camminano rispetto a noi che guardiamo chi è caduto: forse ha schiacciato male la suola e, si capisce, l’attrazione gravitazionale non perdona, ci vuole del tempo per riabituarsi al duro suolo terrestre in seguito alla fluttuazione interstellare. Dopo un altro ritornello ecco la strofa di chiusura, assertiva più che mai, che risolve le eventuali incertezze dovute alla natura dell’ignoto che ci circonda: siamo fatti per avere sogni/siamo fatti per essere folli/siamo fatti per restare folli/siamo questo universo/la natura dell’uomo ha i sui vizi/e con gli errori crescerà sempre. Niente da fare, il pubblico deve dimenticare la razionalità e la ragione. Con un abile movimento circolare, ritornano le premesse iniziali sull’importanza dei sogni e sulla follia, una sorta di adolescenza prolungata non solo in senso temporale ma anche spaziale (siamo questo universo). Con un colpo di coda il giovane ci ripropone il tema del vizio umano funzionale a una corretta crescita della società terrestre. Chissà cosa ne penserebbe ET.
Francesco Guasti “Universo”
Siamo fatti per avere sogni
più grandi delle nostre vite
per amare, sorridere in giorni
messi alla prova da nuovi sfide
Siamo fatti per essere folli
complicarci la vita ci piace
progettiamo partenze e ritorni
senza uscire dalla nostre case
Siamo amanti dai cuori zingari
beviamo del vino invecchiato
con la speranza di essere liberi
sotto questo cielo stellato
Con la musica canto speranze
il futuro è di chi se lo prende
oggi ho messo un bel paio di scarpe
e sono andato incontro il mio presente
Sono stato da entrambe le parti
consapevole ed incosciente
la natura dell’uomo ha i suoi vizi
e con gli errori si crescerà sempre
In questo universo
arriverò presto
il mondo comincia adesso
adesso
In questo universo
poi perdere il senso
ma tutto riparte lo stesso
lo stesso
Possiamo perderci nell’universo
senza più limiti ma quel che hai dentro
sputi sentenze affilate come lame
che tagliano soltanto chi si sporca per difendersi
Possiamo esistere
senza ricordo
ma siamo anime
che vanno a fondo
E fino a quando
non schiacciano le suole
guardiamo chi è caduto
attorno a noi
In questo universo
arriverò presto
il mondo comincia adesso
adesso
In questo universo
poi perdere il senso
ma tutto riparte lo stesso
lo stesso
Siamo fatti per avere sogni
siamo fatti per essere folli
siamo fatti per restare folli
siamo questo universo