Quel tempo aveva davvero uno strano profumo. Nell’estate del 1969 moriva Brian Jones e i Rolling Stones non sarebbero più stati gli stessi, e qualche tempo dopo, alla metà di agosto, si svolgeva il festival di Woodstock, 500 mila persone insieme nel nome della musica. Proprio in quei mesi, di pace e amore, Miles Davis ridisegnava la calligrafia astratta della sua tromba e quella, ancora più immaginaria, della sua estetica sonora.
Cercava, con lo strumento, un timbro sempre più sfuggente, meno pressante e questa ricerca timbrica si svolgeva in un flusso creativo esasperato: aveva capito che davanti avrebbe avuto un futuro ancora nuovo.
Una memoria infinita è conservata nelle molte sedute di registrazione di quei tempi di Miles e dei suoi, anche nelle apparizioni dal vivo. Se ne sono certamente accorti tutti, a iniziare dai discografici che stanno continuando, a ritmo molto serrato, a scandagliare sessioni discografiche più o meno note; per finire a studiosi, ricercatori e giornalisti appassionati che ne hanno studiato i molti rivoli.
Nell’ultimo anno, infatti, sono venuti fuori progetti discografici ed editoriali, che ne rinnovano l’interesse, se mai si era sopito. Ultimo, in ordine cronologico è il fresco “Bitches Brew Live”: nove tracce che Miles registrò in due volte separate: le prime quattro al festival di Newport nel luglio del 1969; le rimanenti nell’agosto del ’70 all’isola di Wight. Prima e dopo le session di registrazioni che portarono al seminale Bitches Brew.
Al festival di Newport Miles si presentò in quartetto con Chick Corea al piano elettrico, Dave Holland al contrabbasso e basso elettrico, Jack De Johnette alla batteria. Il grande assente fu Wayne Shorter, il sassofonista rimase bloccato nel traffico e non riuscì ad arrivare per tempo. Comunque i quattro se la cavarono benissimo, regalarono una splendida versione, la prima incisa, di Miles Runs The Voodoo Down, che poi fu scolpita nell’album in studio.
L’intenzione era chiara fina dalle prime note: Miles tentava di coinvolgere attraverso le sue pratiche sonore sempre meno jazzistiche il giovane e numeroso pubblico neroamericano e quello bianco che iniziava a interessarsi degli afroamericani, un po’ la stessa idea che George Wein, direttore artistico del festival jazz, aveva pensato invitando per quella edizione artisti disparati: James Brown, Sly and the Family Stone ma anche Led Zeppelin, Ten Years After, Jethro Tull, Frank Zappa.
Decisamente più spinti e sovversivi gli altri brani, catturati dal vivo il 29 agosto del 1970 al festival dell’isola di Wight. Sei brani legati in una sorta di progetto compiuto, complice un settetto elettrico e freak (consigliabile al proposito uno sguardo al dvd Live At The Isle Of Wight) nel quale compariva anche Keith Jarrett. Una musica corale e rock, elettrica, rhyhtm ‘n’ blues e psichedelica, si sposava perfettamente con un qualsiasi ghetto nero. Favolosa. Talmente indescrivibile che lo scontroso Miles, quando il presentatore gli chiese come potesse annunciare i brani, rispose: “Call it anything“.
Come si diceva, il lavoro di recupero di questi materiali è stato molto assiduo: solo pochi mesi fa è stato pubblicato un bel box per celebrare 40 anni dalle registrazioni di “Bitches Brew”: 3 cd, 1 dvd con il concerto del 4 novembre 1969 alla Tivoli Konsertsal di Copenaghen con il quintetto Shorter, Corea, Holland e DeJohnette e un libro di 48 pagine. Il doppio di “Bitches Brew” presenta tracce rimasterizzate per l’occasione e arricchite da qualche versione alternativa interessante e brani come Great Expectations e The Little Blue Frog, che risalgono a session successive.
Nel cd singolo invece il concerto a Tanglewood del 1970, in apertura della performance di Santana. Questa la formazione ufficiale: Miles Davis, Gary Bartz, Chick Corea, Keith Jarrett, Dave Holland, Jack DeJohnette, Airto Moreira. È anche l’ultimo dei quattro show Fillmore At Tanglewood prodotti da Bill Graham tra il 1969 e il 1970. Una meraviglia.
Quelle registrazioni, quegli anni, quei momenti magici di Miles sopravvivono alla storia, al tempo, alle innovazioni tecnologiche. E diventano oggi uno spazio pubblico, però conservano dei codici di funzionamento che valgono soltanto per quello specifico luogo, in quel preciso istante. Al di fuori di lì non andrebbero bene. Il tempo, allora, aveva davvero uno stano profumo.
P.s. Una montagna di materiale, una quantità infinta di suoni che mescolano il jazz al rock più elettrico e a quello più psichedelico, è questo il Miles Davis del periodo “Bitches Brew” e dintorni. Difficile da seguire passo per passo l’evoluzione estetica, Miles correva come se guidasse la sua Ferrari fiammante. Un piccolo aiuto potrebbe arrivare da questo testo: Bitches Brew. Genesi del capolavoro di Miles Davis di Enrico Merlin e Veniero Rizzardi (Il Saggiatore).