“La gente è pazza e i tempi sono strani / Mi sento chiuso in gabbia, sono fuori gara / Una volta m’importava, ma le cose sono cambiate” (Things Have Changed)
C’è un lungo camion, parcheggiato alla Bicocca. La scritta sul fianco recita “Rock’n roll Trucking”, ma quello che sta per salire sul palco del teatro degli Arcimboldi, per accompagnare Bob Dylan nel suo show di Milano, non è il circo della Rolling Thunder Revue. Le cose sono cambiate parecchio negli ultimi anni, e non solo perché quello che alcuni si ostinano a chiamare ancora menestrello ha abbandonato da tempo la chitarra, per sedersi dietro alla rassicurante sagoma di un pianoforte a coda, ma soprattutto perché, come un prestigiatore, ha cambiato più volte le carte in tavola. Ed oggi che Dylan è pure premio Nobel, non c’è più neppure quella voce fuori campo, ad annunciare il suo ingresso in scena – “Good evening, ladies and gentlemen, would you please welcome the poet laureate of rock’n’roll…”- ma solo il fingerpicking dei suoi chitarristi, interrotto bruscamente dai primi accordi di Things Have Changed, suonati al piano dal nostro uomo, entrato in scena nell’ombra, schivo e furtivo come sempre.
Melodia e ritmo sono poco accattivanti, ma la voce questa sera è forte e chiara e Dylan ha iniziato il suo show come se fosse la prima volta: “un uomo preoccupato con la testa piena di pensieri / nessuno di fronte e me e nulla dietro”.
“Dio disse ad Abramo: “uccidimi un figlio / Abe dice: “ma mi stai prendendo in giro?” / Dio dice: “no”. Abe dice “cosa?” / Dio dice: “Abe, fa come ti pare, ma la prossima volta che mi vedi ti consiglio di sparire” / E allora Abe dice: “E dov’è che dovrei ammazzarlo?” / Dio dice: “Là, sulla Highway 61” (Highway 61 Revisited)
Dylan attacca Don’t Think Twice e la voce appare ancora più potente. Anche la band molla un freno a mano fin troppo tirato e lo segue, in un ritmo sempre più incalzante. Il passaggio ad Highway 61 arriva subito dopo ed appare cosa buona e giusta. Così lui si alza dallo sgabello e si dispone in piedi davanti alla tastiera del piano, che non è un supporto per stare meglio in equilibrio, ma luogo della memoria, dei fantasmi di Jerry Lee Lewis e Little Richard, quelli che hanno sempre abitato la strada. E noi, invece, facciamo fatica a stare seduti, intimoriti da quell’avviso, ad inizio concerto, della proibizione assoluta di agitarsi, tirare fuori i cellulari ed andare sotto al palco, pena l’essere sbattuti fuori dalla security. Fuori dal posto dove è tornato di scena il rock’n’roll, lontano dalla highway dove siamo sbarcati di nuovo.
“Finita è ogni gioia ed ispirazione / Le lacrime sono tutto quello ho da far vedere / Nessuna consolazione / Tutto quello che posso vedere è dolore e oscurità / Fino al giorno del giudizio / Oh, malinconia” (Melancholy Mood”)
Simple Twist Of Fate. Sapessi, Bob, quante volte ho pianto, sulle note di questa tua canzone d’amore. Fin da quando, ragazzino a metà degli anni settanta, sognavo di percorrere le vie del Greenwich Village di New York, seduto sulla poltrona del vecchio salotto di casa, riciclata nella mia cameretta, e con la tua biografia ed i miei sogni di quattordicenne tra le mani. Stasera me la fai passare davanti così, in un battibaleno, poi ti alzi e vai verso l’asta del microfono, al centro del palco. La prendi in mano, la rigiri un po’ e dopo vai a sederti di nuovo al piano. Attacchi Duquesne Whistle, uno dei tuoi ultimi brani originali, tratto da quel Tempest, del 2012, che dopo tutti i dischi con le canzoni di Sinatra ora sembra così lontano. Ma è solo un attimo: eccoti di nuovo lì, in piedi con quell’asta, che a tratti sembra persino una stampella, da come ti ci appoggi sopra. Ma quel che ci stai appoggiando, in realtà, è il tuo cuore e Melancholy Mood è la prima delle canzoni dell’American Songbook che ci regali stasera.
“Queste canzoni sono state scritte da persone che sono andate fuori moda molti anni fa – aveva detto Dylan – e probabilmente io sono uno che ha contribuito a mandarcele. Ma ciò che hanno fatto è una forma d’arte perduta. Come Leonardo, Renoir e Van Gogh. Nessuno dipinge più così. Ma non è sbagliato provarci”. Ci riprova lui, allora. Ed è una delle cose migliori che sappia fare adesso, Bob Dylan, classe 1941, padre putativo per molti, se non addirittura per tutti gli artisti rock.
“Quando credi di aver perso tutto / ti accorgi che avevi ancora da perdere qualcosa / Vado via per la mia strada ma mi sento così male / Cerco di arrivare in paradiso prima che chiudano la porta” (Tryin’ To Get To Heaven)
Dylan torna al piano, canta Honest With Me, in fondo è questo che sta continuando incessantemente a fare: essere onesto con se stesso e con la sua musica. Attacca Tryin’ To Get to Heaven, una delle melodie più dolci che abbia mai scritto, di quelle che ti si appiccicano addosso. Poi è di nuovo centro del palco, per Once Upon A Time, ancora uno standard americano, ancora i musical e Frank Sinatra nel cuore. Pay In Blood è tratta da Tempest, saranno cinque, alla fine, i brani scelti da quell’ultimo disco di sue composizioni. Poi, su un ritmo quasi sincopato, musicalmente strano, un tuffo indietro di più di quarant’anni. Tangled Up In Blue è quasi irriconoscibile, oggettivamente brutta. La tonalità è abbassata, l’insieme delle strofe più uno spoken word che un canto. Mi sento a disagio, non mi piace. Un brano che in passato mi aveva cullato all’infinito lungo liriche quasi lisergiche, ora mi appare appiattito e senza senso. Bob sembra sempre più aggrovigliato nel blu, ora che davvero sta provando a perdere tutto lungo la sua strada, bussando alle porte di un paradiso che deve stare per forza da qualche parte.
“Tuono sulla montagna, romba come un tamburo / Dormirò lassù, è da lì che viene la musica / Non ho bisogno di guide, la strada la conosco già / Ricordati che io sono il tuo servitore sia di notte che di giorno” (Thunder On The Mountain)
Early Roman Kings è una discreta canzone, passa via veloce mentre ancora sto pensando alla povera Tangled Up in Blue. Ma Desolation Row non delude, rimane ancora quel gigantesco affresco surreale e suscita un sussulto nel pubblico del teatro, che vorrebbe saltare in piedi e battere le mani, ma non osa rompere l’incantesimo. Love Sick è resa bene, anche se ha perso buona parte della drammaticità che possedeva in quelle prime esecuzioni di fine anni novanta / inizio duemila. Poi arriva Autumn Leaves e Bob è ancora al centro del palco. I versi di Jacques Prévert prendono vita e la gente è rapita. Dylan sembra capire di aver fatto breccia in quel pubblico che tante volte sembra voler tenere misteriosamente distante da sé. Apre le braccia, si scosta dall’asta del microfono, sembra quasi perdere l’equilibrio. E’ Dylan, è Sinatra, è Yves Montand, è la canzone d’amore. E’ la vera canzone popolare, quella che è tale perché vive nel cuore di quello stesso popolo a cui anche il cantautore appartiene.
Ci si potrebbe fermare qui, ma c’è ancora un pezzo di strada da percorrere insieme. Thunder On The Mountain è la vera esplosione di energia dello show. La band viene lasciata correre – meriterebbe davvero maggiore spazio – ed è rock’n’roll da respirare a pieni polmoni. Dylan sembra ricordarsi che in fondo, anche per lui, era partito tutto da lì, da quel “tuono sulla montagna che romba come un tamburo”, quel luogo “lassù”, da dove “viene la musica”. Si alza, suona in piedi ed è come un urlo liberatorio. Quando era venuto la prima volta in Italia, nel 1984, a Verona, aveva raccontato di aver sentito i leoni nell’arena. Sono passati gli anni, ma quei ruggiti sembrano ancora tutti interi: yeah, Bob, play fuckin’ loud, one more time.
“Because something is happening here / Perché qui sta accadendo qualcosa / But you don’t know what it is / Ma tu non sai che cosa / Do you, Mister Jones? / Non è vero, Mister Jones?” (Ballad Of A Thin Man)
Bob si siede di nuovo al piano, le luci si fanno soffuse. Soon After Midnight è l’intermezzo ideale prima che Long And Wasted Year lo veda di nuovo in mezzo al palco. Canzone d’amore e di rimpianto, è una perla preziosa da portare a casa. Chissà a cosa pensa, mentre la canta, quell’uomo che non rivolge mai una parola al pubblico, e che appare così solitario, mentre cerca di afferrare il suo destino. Eppure, a chi lo accusava di essere poco comunicativo, aveva spiegato bene, un giorno, che della gente a lui importava eccome, tanto che l’essere in scena, per lui, era come rischiare la vita ogni volta.
La canzone termina, solo una manciata di minuti ci separano dai bis finali. Sui versi di Blowin’ In The Wind, Dylan sembra andare per la sua strada, su una tonalità differente dal resto della band. Gente che se ne intende dice che le scale pentatoniche che utilizza Dylan in questo momento non siano tra le più semplici. “Le chiavi maggiori – aveva spiegato una volta – evocano una dimensione fantastica, quelle minori una dimensione sovrannaturale. E il La bemolle maggiore è la chiave della rinuncia”. Charlie Sexton, il chitarrista solista della band, guarda le mani di Dylan, i tasti del pianoforte che sta suonando, e gli va dietro con la band. Blowin’ In The Wind, stasera, sembrerebbe suonata proprio in la.
Poi arriva Ballad Of A Thin Man. A detta di molti, una delle canzoni rese meglio negli ultimi tempi. Il brano termina, Dylan si dispone a centro palco, le gambe divaricate, i musicisti della band accanto a lui. Guarda la gente, lo sguardo fisso avanti a sé, è il suo modo di dire grazie; poi si allontana, il passo sempre più affaticato e incerto, il passo di un uomo anziano. Fuori dal teatro, il mio amico Roberto è felice. Non aveva mai visto Dylan dal vivo e lo spettacolo gli è piaciuto tantissimo. Io, alle prese coi ricordi di decine di concerti di Bob in quasi quarant’anni, non so cosa pensare. Qualcosa è accaduto, anche stavolta, ma, eterno Mister Jones, non riesco a capire cosa. Eppure è così semplice, in fondo. “Le nostre canzoni – ha scritto recentemente Bob, nella sua Nobel lecture – sono vive nella terra dei vivi. Sono fatte apposta per essere cantate, non lette. E spero che alcuni di voi coglieranno l’occasione per ascoltare quei versi nella forma in cui sono stati concepiti per essere ascoltati, in concerto, su disco, o in qualsiasi modo oggi si ascoltino le canzoni”.
Come quell’Omero, citato ancora da Dylan, che dice “canta in me, o Musa, e attraverso me racconta la storia”, anche noi, ascoltando Dylan, abbiamo lasciato che quella Musa continuasse a parlare. Raccontando, in fondo, anche un pezzo della nostra storia.