L’Istituzione Universitaria dei Concerti è una delle più antiche organizzazioni concertistiche italiane. Sviluppata dall’Università La Sapienza, i suoi due appuntamenti settimanali (32 concerti questa stagione, martedì sera e sabato pomeriggio) sono affollati da giovani sia per i prezzi “politici” (ossia molto bassi) sia perché coniuga la grande classica con la contemporanea (anche jazz, elettroacustica, live electronics). Ce ne occupiamo meno di quanto meriti solamente a ragione della grande offerta musicale a Roma e nel tentativo di seguire il resto d’Italia e i principali eventi stranieri.
Di grande rilievo, il viaggio musicale lungo il Danubio, con tappe a Budapest e a Vienna, eseguito il 12 ed il 19 gennaio da uno più apprezzati pianisti italiani di oggi, Andrea Lucchesini. La prima tappa di questo viaggio è stata Budapest. Il pianista toscano ha preso brevemente la parola per introdurre il concerto e ha poi lasciato che fosse la musica a parlare. Dal punto di vista cronologico è stato un viaggio a ritroso, perchè iniziato con l’autore più recente in programma, György Ligeti (1923-2006), uno dei protagonisti della musica della seconda metà del ventesimo secolo. Partito dall’eredità di Bela Bartók, Ligeti si accostò presto alla dodecafonia per approdare infine agli sperimentalismi – elettronica, poliritmia, micropolifonia – delle avanguardie musicali degli anni Sessanta e Settanta. Nel periodo del regime comunista Ligeti mantenne un forte rapporto con la più avanzata cultura europea, cui l’Ungheria apparteneva di diritto da almeno un secolo, ma dovette pagare queste sue posizioni artistiche con un lungo periodo di lontananza dalla sua patria. Di Ligeti si applaude “Musica Ricercata” (1951/53), uno dei lavori fondamentali del suo periodo giovanile, stato scelto da Stanley Kubrick per la colonna sonora di Eyes Wide Shut.
Con un salto indietro di alcuni decenni, Lucchesini ha eseguito la Sonata di Bela Bartók (1881-1945), compositore fondamentale della prima metà del Novecento, che partecipò da protagonista agli sviluppi della musica europea della sua epoca, ma allo stesso tempo rimase sempre profondamente legato alla sua terra e basò tutta la sua produzione sull’attento e amorevole studio della musica magiara. La Sonata, scritta nel 1926, ha colpito per la severa concentrazione, la ricchezza di idee e la violenza percussiva con cui è trattato lo strumento. Approdo inevitabile di questo viaggio è Franz Liszt, di cui Lucchesini ha presentato la Sonata in si minore (1852/53), opera di geniale audacia, formata da una sola grande campata, senza la tradizionale divisione in movimenti: la più alta realizzazione pianistica non solo di Liszt ma di tutta la seconda metà dell’Ottocento.
Nella seconda tappa, Lucchesini ha dovuto fare una difficilissima scelta nello sterminato numero di musicisti che a Vienna nacquero o operarono e alla fine ha deciso di soffermarsi su tre autori che hanno dominato la musica dell’Ottocento e hanno anche dato un inestimabile contributo di capolavori al pianoforte: Beethoven, Schubert e Brahms. Il concerto è stato ha aperto il concerto con una raccolta di tre brani Franz Schubert che appartengono alla prodigiosa fioritura di capolavori dell’ultimo anno di vita del compositore, il 1828, quand’era ormai consapevole della precocissima fine che lo attendeva. Furono scoperti soltanto quarant’anni dopo da Johannes Brahms e pubblicati nel 1868, ma non hanno mai raggiunto la celebrità di altre raccolte pianistiche di Schubert, come gli Impromtus op 90 e op. 142, cui sono accostabili per la loro forma libera e il loro tono lirico, con un’alternanza di momenti tranquilli e teneri e di presagi angosciosi. A Schubert risponde idealmente Johannes Brahms, con i suoi 3 Intermezzi op.117. Composti nel 1892 appartengono anch’essi all’ultima fase creativa del loro autore. Brahms tornò a scrivere per il pianoforte dopo tredici anni e riversò in quello che era il “suo” strumento un intimo diario musicale un vero e proprio monologo interiore, che definì “ninne-nanne della mia sofferenza”.
Conclude il concerto Ludwig van Beethoven, con l’opera più grandiosa della grande letteratura pianistica dell’Ottocento, la Sonata n. 29 in si bemolle maggiore op.106 “Hammerklavier”, abbozzata nel 1817, terminata solo dopo due anni e dedicata all’arciduca Rodolfo d’Austria, allievo del compositore e uno dei suoi più grandi ammiratori. E’ uno degli ultimi capolavori beethoveniani, titanico non soltanto per le sue proporzioni e per il suo contenuto ma anche per la volontà di superamento dei limiti naturali del pianoforte dell’epoca. Grande successo.